La mandragora, sosteneva nel XII secolo la badessa renana Ildegarda di Bingen, è calda e umida, creata della stessa terra della quale fu creato Adamo: proprio perché somiglia tanto all’uomo è, al pari di lui, sottoposta agli assalti del demonio. Per questo essa è molto utile nella magia; ma, per farle perdere i suoi poteri negativi, è sufficiente un bagno in una fonte d’acqua pura per il giorno e la notte seguenti a quello nel quale la radice è stata estratta dal terreno. Si ha l’impressione che questo bagno della radice antropomorfa nell’acqua pura sia un simbolo del battesimo, e che la pianta si liberi dalle sue virtù negative in analogia con il lavacro battesimale che libera l’uomo dal peccato originale.

Sì, perché il tema del peccato originale domina la cultura medievale e, come ci spiega Luciano Cova nel suo Peccato originale. Agostino e il Medioevo (il Mulino, pp. 390, euro 30), il secolo di Ildegarda rappresenta lo spartiaque tra la concezione agostiniana e quella dei secoli tardi. Il tempo dell’uomo, limitato e lineare, aveva un principio e una fine: iniziato con la Creazione, avrebbe avuto fine con il Giudizio Universale. Il peccato originale, tuttavia, ridefinendo il rapporto che nella Creazione Dio aveva determinato appunto tra Lui e l’uomo, segnava il nascere della storia, intesa come progresso verso la soluzione definitiva: la Fine dei Tempi, della quale la fine fisica degli uomini era prefigurazione. La dottrina del peccato originale elaborata da Agostino di Ippona agli inizi del V secolo si basava su una riflessione precedente: quella dell’insegnamento di san Paolo, della patristica latina, delle diverse correnti del cristianesimo, anche eterodosso. Rispetto a quanti l’avevano preceduto, Agostino fornì una sistematizzazione che sarebbe passata ai secoli successivi; una sistematizzazione che riguardava soprattutto due grandi temi: la possibilità della trasmissione della colpa di padre in figlio e i suoi legami con la sessualità, compromessa dopo la trasgressione di Adamo ed Eva.

La dottrina agostiniana, fondamentalmente pessimistica, fu mitigata a partire dal secolo XII, anche grazie all’influsso delle scienze profane veicolate dai testi greci ed arabi tornati in circolazione. Al punto da far parlare di un riemergere del pelagianesimo, la dottrina ch’era stata concorrente rispetto a quella agostiniana (Pelagio era contemporaneo di Agostino) nella quale si sosteneva che il peccato originale non avrebbe macchiato la natura umana; il peccato di Adamo era dunque da interpretare come una sorta di cattivo esempio per la sua progenie. L’avvento del Messia avrebbe dunque bilanciato la colpa di Adamo sul solo piano morale, senza il significato di profonda redenzione che il cristianesimo ortodosso attribuiva ad essa. Le teorie pelagiane erano state ovviamente avversate dal vescovo di Ippona e condannate come eretiche nel concilio di Efeso del 431.

Il prevalere di una intepretazione o di un’altra, come mostra il libro di Cova, ebbe risvolti giuridici importanti, che emergono nel dibattito fra i diversi intellettuali della fase centrale del Medioevo; senza dimenticare che tra XII e XIII secolo il catarismo, con la sua interpretazione dualistica della realtà, nella quale si contrappongono principio della luce (e del bene) e principio della materia (e del male) potrebbe aver contribuito a preparare il terreno per una nuova visione del peccato originale.