I recenti attentati di Parigi si inseriscono in una fase di transizione verso un nuovo ordine egemonico internazionale. Ai mutamenti dei rapporti economico-sociali e statuali in atto si accompagna la crescente rilevanza della variabile religiosa. A dispetto della modernizzazione e dei processi di secolarizzazione che avevano segnato il Novecento, la religione è un fattore di influenza politica nei paesi del cosiddetto Occidente e di mobilitazione in quelli in via di sviluppo. Una tendenza precorsa dall’Iran, la cui rivoluzione nel 1979 fu essenzialmente estranea alle logiche della guerra fredda.
Sulla scorta di questo evento i movimenti religiosi dell’area mediorientale, orientatisi nel frattempo in senso insurrezionale, divennero progressivamente una forza politica influente, raccogliendo consensi fra le classi medie e gli intellettuali. Gli sciiti, in minoranza rispetto ai sunniti in quasi tutta la regione, iniziarono a mobilitarsi per affermare i propri diritti politici e sociali.
Sul versante sunnita all’islamizzazione dal basso, promossa dai Fratelli Musulmani, si contrapponevano già da alcuni anni formazioni radicali che propugnavano un’islamizzazione dall’alto attraverso la lotta armata. Nel panorama progressista arabo non mancavano, inoltre, i movimenti politici che già in precedenza avevano indicato alle masse degli oppressi il socialismo quale «mezzo per l’attuazione dei valori morali progressisti dell’Islam» (Hadj, 1964).

La religione, sullo sfondo della disfida ideologica della guerra fredda, rappresentò pertanto il teatro di uno scontro propriamente politico tra forze progressiste e forze conservatrici, tanto nel cosiddetto Occidente quanto nel cosiddetto Oriente.
La rivoluzione iraniana, in questo senso, sembra rappresentare il turning point dopo il quale a prevalere furono le fazioni conservatrici dell’Islam politico, a danno delle correnti modernizzatrici ispirate a un nazionalismo laico, anticoloniale e socialisteggiante.
La vittoria dell’Ayatollah Khomeini, repentinamente sbarazzatosi dei comunisti del Tdeh, rappresentò un duro colpo non solo per gli Stati uniti, sostenitori del defenestrato Scià di Persia, ma anche per la stessa Unione sovietica: l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa fu anche una risposta ai timori di contagio della rivoluzione islamica. Dal luglio 1979, cinque mesi prima dell’intervento sovietico, l’amministrazione Carter aiutava segretamente i movimenti politico-religiosi che si opponevano al regime filo-sovietico di Kabul: si trattava, secondo la celebre espressione di Zbigniew Brzezinski, di «dare ai sovietici il loro Vietnam». La riscossa delle nazionalità non russe e il fermento religioso, presagiva Hélène Carrère d’Encausse, furono non a caso tra i fattori che avrebbero portato alla disgregazione dell’Unione sovietica.

Con l’estinzione del campo socialista si assisté alla fine dell’ordine internazionale della guerra fredda. Nelle società occidentali, complice l’attentato alle Twin Towers, la questione religiosa fu al centro dei dibattiti sia a livello interno che a livello internazionale. La lettura dei fenomeni politici non di rado si caratterizzò, con particolare riguardo per il mondo arabo, per l’assoluta preminenza assegnata all’elemento religioso: la – presunta – predisposizione all’autoritarismo da parte delle società mediorientali, venne sostenuto, scaturiva infatti dalla presenza dell’Islam. Da queste tesi al vaticinio del prossimo scontro di civiltà il passo fu breve.
Si iniziò, quindi, a parlare, con riferimento al protagonismo della religione nelle relazioni internazionali, di «risveglio religioso», «ritorno del sacro» e «rivincita di Dio». Si tratta, e si trattava, in realtà di un fenomeno ambivalente, dal momento che su scala globale è in corso tanto un processo di «desecolarizzazione» quanto un processo di «secolarizzazione»: in termini quantitativi è, tuttavia, il primo a prevalere (Berger, 1999).

In questo quadro l’attenzione degli analisti di politica internazionale si è soprattutto focalizzata sulla relazione tra la crescente instabilità internazionale e il ruolo politico delle religioni. Il fenomeno religioso è stato pertanto esaminato in termini prettamente sovrastrutturali.
Ogni religione, quale fenomeno che attiene al mondo delle idee, riflette in modo mediato ed imperfetto determinati caratteri ed esperienze sociali. È utile a questo proposito sottolineare che, risalendo alle origini, il tratto principale della presunta predicazione di Gesù era quello dell’avvento del regno di Dio che avrebbe portato alla punizione dei malvagi, identificati con i potenti ed i ceti dominanti del tempo.
Le prime generazioni cristiane tradussero in fede e speranza religiosa il malcontento nei confronti di un’oppressione economica e sociale basata sulla schiavitù che li aveva sottomessi al predominio imperiale di Roma. Il cristianesimo era, dunque, un movimento di oppressi e tale rimase fino al IV secolo.
La religione, osservava Donini, «non offre soltanto un’immagine deformata di quel che gli uomini pensano o fantasticano sui loro rapporti con la natura e con la società, ma ci permette spesso di cogliere nel vivo la protesta contro stato di subordinazione, forme iniziali di insofferenza e di lotta che hanno segnato il passaggio ad aperti moti di rivolta».
L’indagine storica, sociologica ed etnologica contribuisce pertanto alla comprensione dei bisogni sociali e delle ragioni che determinano la massiccia adesione a credenze religiose. Se, quindi, sembra innegabile il ruolo che l’Islam ha avuto e ha nella fisionomia politico-culturale delle società medio orientali, è lo studio delle condizioni economiche e sociali di quell’area il terreno sul quale le ricerche su questi complessi fenomeni presentano oggi le maggiori lacune.
A non essere debitamente posta in luce, tanto nelle analisi quanto nelle interpretazioni degli eventi, è la condizione di oppressione sociale ed economica vissuta da questi popoli.
La fede islamica, non è pleonastico affermare nel clima pre-illuministico nel quale viviamo, rappresenta una espressione della protesta delle masse contro tale stato, ma è anche lo strumento attraverso cui le locali classi dominanti tentano di affrancarsi dal dominio economico occidentale per affermare il proprio primato sociale.
In assenza di un’opzione politica coerentemente progressista e laica per migliaia di subalterni europei, asiatici ed africani, il radicalismo islamico, in ultima istanza, rappresenta un modello politico, sociale e ideologico, alternativo a quello in cui vivono.