Come ben sa l’appassionato circolo dei lettori di Roberto Bolaño, è al grande successo dei Detective selvaggi e, soprattutto, a quello travolgente di 2666 che lo scrittore cileno deve la sua canonizzazione postuma, grazie alla quale gli è stata cucita addosso un’ immagine a metà tra l’artista maledetto, l’esiliato politico che non fu mai, e il vagabondo beatnik che voleva essere nell’adolescenza. A tredici anni dalla scomparsa dell’autore e mentre i suoi romanzi continuano a essere ristampati, l’unanimità che lo circonda viene tuttavia incrinata sempre più spesso da segnali di «debolañizzazione» provenienti dalla Spagna e dall’America latina.

Giovani narratori come Luis Felipe Torres fanno proprio l’impeto iconoclasta che un tempo era di Bolaño, e sulla più anticonformista delle riviste cilene gli rimproverano «una prosa in cui regna l’artificio innecessario, e che tiene per mano il lettore». Inoltre, alcuni critici, nonché diversi scrittori (questi ultimi da ascoltare con cautela, perché già loro stessi bersaglio di Bolaño, maestro della provocazione) gli rinfacciano assenza di stile e una scrittura troppo facile, tanto che a Diamela Eltit – figura di spicco di un’avanguardia attiva anche durante la dittatura – questa scrittura sembra tradotta dall’inglese; e, infine, gli addebitano una inclinazione a compiacersi delle proprie ossessioni, così insistente da trasformarle in cliché.

«Nei suoi libri, lo scrittore è qualcuno che, solo per il fatto di essere tale, è chiamato a vivere una vita interessante, piena di avventure, di indagini poliziesche, di appassionati rancori, di esperienze intense. La mitizzazione dello scrittore si dispiega in tutto il suo splendore. A volte ho l’impressione che se a Bolaño si togliesse questa mitizzazione, della sua opera non resterebbe nulla», nota Damián Tabarovsky, rigoroso scrittore e saggista argentino.

Anche se nemmeno le osservazioni più agre, capaci di aprire qualche crepa sulla superficie del «rilucente monolite» Bolaño, negano la qualità e l’importanza della sua opera, sembra arrivato il tempo di una lettura più attenta e diffidente: utile, secondo Patricio Pron, a contrastarne sia la «normalizzazione» che la trasformazione in semplice icona pop.
Appare sempre più opportuno, insomma, avviare la desacralizzazione di un autore molto spesso abile e a volte geniale, senza timore delle eventuali accuse di blasfemia (dice Jorge Edwards, l’ultimo romanziere cileno appartenente alla generazione del Boom, che «la blasfemia in letteratura è sempre stata la benvenuta») e evidenziando come alcuni vezzi di Bolaño, fra cui l’eccesso di giochetti borgesiani, alla lunga diventano irritanti, o come alcuni suoi testi «recuperati» risultano di qualche interesse solo per studiosi e specialisti.

Tra i testi non riusciti o irrilevanti non sono certo da includere i due notevoli romanzi brevi dedicati al Cile e alla sua epoca più oscura: il primo è Stella distante, nato da una costola della Letteratura nazista in America, e l’altro è Notturno cileno, appena uscito da Adelphi nella nuova traduzione di Ilide Carmignani (pp. 123, euro 15,00) preceduta nel 2003 da quella di Angelo Morino per Sellerio.
Al di là del tema comune (ossia la dittatura e il tentativo di rimozione della memoria nel corso della transizione alla democrazia), li collega un altro filo che corre lungo i romanzi e i racconti di Bolaño, quello delle identità fittizie e dei personaggi che vanno e vengono da un testo all’altro: il critico letterario Nicasio Icabache, presenza fuggevole in Stella distante, è infatti un primo abbozzo di Sebastián Urrutia Lacroix e del suo alias H. Icabache, protagonista e voce narrante di Notturno cileno. Ma il gioco delle maschere non finisce qui: Urrutia Lacroix è a sua volta modellato su un personaggio reale, José Miguel Ibáñez Langlois, poeta, sacerdote e membro dell’Opus Dei, che sulle pagine del quotidiano ultraconservatore El Mercurio diventava Ignacio Valente, critico noto e temuto, eletto giustamente da Bolaño a simbolo della cultura ufficiale e della sua collusione con il potere, ma anche di una Chiesa consigliera fidata del regime. Un simbolo che, senza dubbio, mantiene la sua valenza anche fuori da un contesto puramente regionale e possiede una sua universalità (perchè universale è il problema che pone e rappresenta), in linea con le caratteristiche spiccatamente transnazionali dell’autore cileno.

Accanto a Urrutia troviamo poi, nelle vesti di un mentore sarcastico, il vecchio Farewell, anche lui ricalcato su una figura della realtà, ovvero Hernán Díaz Arrieta, forse il più importante critico letterario cileno degli anni cinquanta. E tristemente riconoscibile è Maria Canales, nella realtà Mariana Callejas, scrittrice ostinata, agente della Dina e moglie di Michael Townley, uomo della Cia implicato nel Plan Condor, responsabile di attentati mortali e oggi sospettato di essere il fantomatico dottor Price che avrebbe avvelenato Neruda: un’ipotesi formulata molti anni dopo la morte di Bolaño, ma degna della sua inventiva. A tutto questo si aggiunge poi il consueto teatrino di letterati «senza maschera» che è una delle ossessioni citazioniste di Bolaño: vengono alla ribalta il Sordello dantesco, l’ineludibile Pablo Neruda, Ernst Jünger e perfino Leopardi, del quale Urrutia svela l’esistenza a un allievo sorprendente, il generale Pinochet (in un episodio che è il calco fedele della realtà, il sacerdote diviene il suo professore di marxismo), che Bolaño riesce a ridicolizzare senza per questo sminuirne la burocratica ferocia.
Ancora una volta, dunque, lo scrittore mette in moto la sua macchina narrativa nel modo che più gli è congeniale, trasfigurando vicende autentiche e personaggi veri in funzione di un immaginario apocalittico, «l’unico – sottolinea Edmundo Paz Soldán – che renda giustizia all’America latina degli anni settanta». Come sempre, la storia prende forma attraverso una trama principale sulla quale si innestano brevi storie autoconcluse che compongono un complicato mosaico; come sempre la vicenda è sostenuta dalla sapienza del Bolaño lettore, che attinge a una sterminata biblioteca i cui confini non riusciamo a intravedere (ma con un Borges triumphans sistemato proprio al centro); come sempre scrittori e poeti sono protagonisti sconfitti, votati a una rivoluzione impossibile o condannati alla complicità. Un’ennesima messa in scena dell’infamia, insomma, che nel caso di Notturno cileno disegna un percorso mai battuto prima dal cosidetto romanzo della dittatura – quasi un genere a sé, in seno alla letteratura latinoamericana, nel quale si sono cimentati autori più che illustri.
Nonostante Bolaño abbia dichiarato in un’intervista che questo è il suo testo più azzardato quanto a stile e struttura, alcune sue soluzioni sono state già ampiamente sperimentate, per esempio l’introduzione di due simboli incarnati del capitalismo quali i traffichini Oido e Odeim (ovvero Odio e Miedo– «paura» – alla rovescia), o il ricorso a un flusso di coscienza articolato in due soli paragrafi, uno di centocinquanta pagine e l’altro di un’unica frase sibillina e variamente interpretabile: «E poi si scatena la tormenta di merda».