I lavoratori Almaviva di Roma hanno detto sì all’accordo con la multinazionale dei call center, ribaltando la decisione espressa giovedì scorso dai propri delegati sindacali: ma sono andati a votare con le lettere di licenziamento già in mano. Dando seguito infatti all’intesa firmata al ministero dello Sviluppo, che prevede un congelamento delle missive solo per il sito di Napoli (che ha sottoscritto entro la scadenza della procedura), il gruppo controllato dai Tripi ha intanto fatto partire la rescissione dei contratti per la sede laziale. Il referendum, organizzato ieri dalla Cgil, ha comunque dato l’ok a riprendere la trattativa per evitare i 1.666 licenziamenti: i votanti hanno superato il 63% (1.065 in tutto); a favore si sono espressi in 590, mentre hanno barrato il no in 473 (2 le schede nulle). Ora però dovrà essere la stessa Almaviva a fare un passo per riaprire il tavolo, perché come detto le lettere sono già partite (data 22 dicembre, con effetto dal 30): e bisognerà capire ovviamente come si muoverà il governo, che aveva mediato per l’accordo.

Una maggioranza di misura (il 55%), che rivela come gli operatori restino divisi e soprattutto non entusiasti di affrontare una strada che resta tutta in salita: nel caso che si possa tornare al tavolo, bisognerà accettare entro il 31 marzo 2017 – dice l’intesa siglata al ministero – la riduzione temporanea delle retribuzioni (fino a un massimo del 17%), l’aumento di produttività e il sistema di controllo individuale a distanza richiesti dall’azienda, altrimenti i licenziamenti diventeranno immediatamente operativi. Decisamente contrari a un nuovo negoziato diversi delegati della Slc Cgil, tra cui Piero Coco: «Apprendiamo del risultato con amarezza – spiega poco dopo lo scrutinio – Ha detto sì quella maggioranza silenziosa che non ha mai partecipato alle lotte e che si è mossa dopo aver visto che le lettere di licenziamento erano vicine. Gli altri, quelli che in questi anni hanno lottato con noi per le clausole sociali e contro le delocalizzazioni, hanno detto no. Penso che alcuni di noi si dimetteranno: saranno altri eventualmente a portare avanti le trattative».

Alla consultazione si era arrivati dopo che le tredici Rsu del sito romano avevano respinto all’unanimità, nella notte del 22 dicembre, l’accordo che invece era stato siglato dalle segreterie di Cgil, Cisl e Uil e dalla maggioranza dei delegati di Napoli (sei a favore, uno contrario: avevano così congelato immediatamente gli 845 licenziamenti previsti per la sede campana). Dopo due giorni di trattative a vuoto tra Almaviva e sindacati, e a poche ore dalla scadenza della procedura di mobilità, il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda e la sua vice Teresa Bellanova avevano proposto un ultimo tentativo di intesa che – visti i tempi strettissimi – rappresentava ormai un prendere o lasciare.

I delegati romani, messi di fronte all’alternativa tra il taglio dei diritti e i licenziamenti, avevano deciso di restare fedeli al mandato ricevuto dalle ultime assemblee tenute nei call center, respingendo l’accordo. Avrebbero voluto, come aveva spiegato la Rsu Slc Cgil Massimiliano Montesi al manifesto, riconvocare i lavoratori per poterli consultare sull’ultima proposta, ma dal governo e dall’azienda era arrivato un netto no. Da qui la decisione di indire nuove assemblee a intesa già firmata, venerdì scorso, alla vigilia delle feste natalizie, e il referendum che si è tenuto ieri alla Cgil di via Buonarroti a Roma. Intanto Fistel Cisl e Uilcom hanno raccolto firme per la riapertura del tavolo (ieri la Uilcom dichiarava di essere arrivata a quota 750).

Un voto espresso con amarezza, e con le lettere di licenziamento già in mano, è comunque un voto: ma dà la misura della drammaticità a cui è giunta la vertenza. Da un lato le richieste dell’azienda, dall’altro la spada di Damocle dei licenziamenti che rende complicata – se non impossibile – qualsiasi trattativa. Almaviva ha già un polmone di sfogo dove il lavoro costa meno, in Romania, filiale aperta quest’anno e con prospettive di sviluppo: quindi può contrattare partendo da un’assoluta condizione di superiorità. L’azienda sostiene che il costo del lavoro, così come è strutturato in Italia – e a fronte di gare, soprattutto pubbliche, al massimo ribasso – non si può reggere, e ha già causato perdite per 2 milioni di euro al mese. Sullo sfondo, gli 80 mila lavoratori dei call center italiani, proprio in questi mesi al rinnovo del contratto: la vertenza Almaviva peserà su quel tavolo, e probabilmente non sarà un bel vedere.