I dipendenti di Almaviva si sono accampati già da ieri mattina sotto il ministero dello Sviluppo a Roma: sciopero nella speranza di un accordo, no ai 2511 licenziamenti annunciati dal colosso dei call center. Per alcune ore la svolta è sembrata poter venire da un lodo proposto dal ministro Carlo Calenda e dalla viceministra Teresa Bellanova, ma poi in serata questa strada si è rivelata senza uscita. L’azienda era disposta ad accettare la mediazione, ma ponendo come condizione l’accettazione da parte del sindacato di un «piano di risanamento», mentre per Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom il lodo non è stato ritenuto accettabile.

NELLA PROPOSTA GOVERNATIVA – che sarebbe diventata la soluzione non più negoziabile se entrambe le parti in causa avessero accettato di accedere al lodo – erano previsti la cassa integrazione senza pagamento del ticket aziendale (3 milioni circa), il controllo sul lavoratore ex articolo4 (una delle richieste più pressanti di Almaviva era stata quella di poter calcolare la produttività del lavoro tramite telecontrollo), più formazione finanziata dalle regioni per la riqualificazione del personale. Il sindacato non ha accettato un accordo offerto a scatola chiusa, ritenendo forse di poter spuntare migliori condizioni proseguendo la trattativa. Che infatti è stata riaperta con la modalità «a oltranza»: ovvero ultima chiamata, con la prospettiva di andare avanti per tutta la notte.

Questa mattina sapremo già di più, sperando che si sia trovata una soluzione per salvare i posti di 2511 persone. I licenziamenti sono ormai in ballo da marzo scorso: prima ne erano stati annunciati tremila, poi rientrati grazie a un accordo siglato tra azienda e sindacati il 31 maggio. Intesa che prevedeva un pesante programma di solidarietà soprattutto per le sedi di Roma, Napoli e Palermo, giudicate in esubero; mentre Catania, Milano e Rende – più produttive secondo Almaviva – continuavano ad attirare le commesse migliori.

IN OTTOBRE la doccia gelata: l’azienda spiega che l’accordo non funziona, così come le soluzioni messe in campo dal governo per correggere le distorsioni del settore (gare pubbliche al massimo ribasso, delocalizzazioni nella Ue e fuori dalla Ue, nessun controllo sul rispetto delle normative sulla privacy): quindi via, questa volta, a 2511 licenziamenti. Ma solo su Roma e Napoli, che verranno chiuse, mentre si è deciso di lasciare aperta la sede di Palermo (con alcuni trasferimenti a Rende tuttora contestati).

Nel frattempo l’azienda controllata dalla famiglia Tripi, che aveva sempre guidato il fronte dei non delocalizzatori – arrivando a  inserire nel proprio statuto l’impegno a creare lavoro solo in Italia – ha deciso di cambiare policy, spinta – affermano i dirigenti – dalle  perdite e da meccanismi competitivi che non premiano chi rispetta regole e contratti: e così è stato aperto un call center a Iasi, in Romania, per servire il mercato italiano.

Poco più di due mesi fa, proprio all’indomani dell’annuncio dei 2511 licenziamenti, su un sito di recruitment rumeno campeggiava un annuncio per la ricerca di 500 operatori che parlino italiano (livello minimo B2): il call center di Iasi è partito con cento postazioni, ma secondo i più informati potrebbe arrivare presto a mille.

LA PROCEDURA APERTA in ottobre è arrivata fino alla trattativa di questa notte, la scadenza è fissata per domani: se tutto andasse per il peggio, i 2511 operatori di Almaviva potrebbero cioè ricevere le lettere di licenziamento sotto l’albero di Natale. O forse – giusto per evitare un periodo non certo felice mediaticamente per diffondere brutte notizie – si aspetterà l’inizio del nuovo anno.

Ovviamente stiamo ai condizionali, tutti sperano che la vertenza rientri e che le 2511 famiglie di Almaviva possano continuare a portare a casa il loro stipendio, peraltro già martoriato da anni di cassa integrazione e solidarietà.

ALMAVIVA, che qualche settimana fa si era attestata su una proposta (rifiutata dai sindacati) di taglio temporaneo delle retribuzioni (fino a fine risanamento) e controllo sulla produttività, continua a sostenere che qualsiasi soluzione dovrà avere come condizione base «la continuità economica dell’azienda», spiegando di subire perdite di 2 milioni di euro al mese nonostante un massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali. Ammortizzatori che, sempre secondo il gruppo, non potranno più rappresentare l’unica soluzione. I sindacati rifiutano la logica del taglio delle retribuzioni e chiedono che si intervenga modulando meglio (su tutte le sedi) le commesse e gli ammortizzatori sociali.