All’Area Sismica è di scena Alvin Curran. Per concludere la tre giorni del Festival di Musica Contemporanea Italiana, quinta edizione. Una tastiera elettronica, un campionatore, un computer. In avvio un silenzio rumoroso o di rumori inclini al silenzio. Poi suoni di natura, animali, tutto in minimal, cioè in andamento ripetitivo. Sulla base minimal di suoni sintetici astratti che intanto sono subentrati – e nelle performances di Curran occorre sempre distinguere tra «astratti» e «concreti» – si sente una voce come di una muezzin femmina in un luogo qualsiasi. Nel flusso frastagliato (e più agitato) di suoni che si è fatto strada due voci recitano in russo parole che sembrano un decalogo leggero, con disincanto. Raccontare questo compositore istantaneo nell’avvicendarsi di situazioni sonore è difficile, ce ne sono mille e ancora mille, non hanno senso e hanno il senso appassionante della composizione. Appunto.

Sono tutti suoni campionati che Curran pesca dal suo infinito archivio e mette uno dopo l’altro, uno sopra l’altro. Si lascia guidare dal loro saltar fuori dall’archivio e nello stesso tempo ne sceglie alcuni, li affastella un po’ e molto li mette in relazione. A una nenia soffice ripetuta si sovrappongono scariche tonanti, presenze elettriche che immediatamente vengono insidiate da una voce di tenore d’opera che si mantiene sull’acuto. E dopo una voce di donna in godimento erotico… Ogni singolo episodio non regge mai tanto tempo isolato perché intorno appaiono e si muovono tanti suoni che avvolgono e che poi si dileguano, tutto ha sempre molto corpo, molta densità sonora.

È l’irruzione del reale, direbbe Deleuze. O glielo farebbe dire Rocco Ronchi, un filosofo teoretico che è di casa all’Area Sismica (Deleuze, credere nel reale, Feltrinelli, presentato e discusso venerdì scorso a Esc in Via dei Volsci a Roma). Direbbe Ronchi interprete deleuziano: ecco il reale, è quello che accade e dentro ci siamo noi. E i suoi critici: ma il reale è frastagliato (come la musica di Curran, ndr), alcuni elementi del reale si oppongono ad altri, confliggono. E lui: certo, ma dentro un Uno reale che non accetta dialettica e per questo produce variazioni. E loro: tra gli elementi del reale-Uno ne scegliamo alcuni, ci spostiamo verso alcuni che popolano il reale. E lui: verso quelli che sono eventi, come il ’68 per esempio. E loro: eventi che cambiano il quadro del reale, il reale non è un dato immutabile da accettare così com’è, perché noi ci spostiamo verso gli eventi che parlano di libertà e non di fascismo?

Con Curran l’irruzione del reale sembra suscitare sentimenti di libertà e di molteplicità. Di caos a volte terrifico più spesso affettuoso. Si potrà dire sentimenti? Nell’arte sì, pare. Nella filosofia no? Allora al diavolo la filosofia. Ma le domande rimangono aperte. Ci sono poi nella performance di Curran, nella sua composizione, momenti di dolce meditazione, zone di stupefazione e di struggimento. E un gioco di mascheramento danzante su As Time Goes By («suonala ancora, Sam»). E un’onda lunga, ma non troppo, di suoni sintetici astratti ancora una volta non estatica, non lineare, persino aspra. Un’onda di suoni sismica. Ecco la parola: sismica.

Andiamo al giorno prima. Il festival esibisce in due diversi recital due stupefacenti virtuosi. Se va bene definirli virtuosi, e certo che va bene: virtuosi non significa acrobati degli strumenti come si credeva un tempo ma intelligenti e singolari strumentisti. Fabrizio Ottaviucci al pianoforte. Michele Lomuto al trombone. Ottaviucci suona le Quattro illustrazioni sulle metamorfosi di Visnu (1952) di Giacinto Scelsi come non s’è mai sentito, mai in maniera così affascinante e così convincente. E così attuale, anzi contemporanea. Sonorità di una limpidezza totale ma nient’affatto fredda, fraseggio ricco di sospensioni, di larghezze, non di propensioni al mistico.

La stessa rigorosa eleganza, lo stesso abbandono pensante Ottaviucci li riserba a Folle, puro (2004) di Luigi Abbate e a Lawless roads (2010) di Stefano Scodanibbio. Il pezzo di Abbate è uno «scherzo» vezzoso-con-ragione, scorrevole, esemplarmente modellato e non accademico. Il pezzo di Scodanibbio? Sconvolgente. L’andamento quasi rock dell’attacco iniziale, la continua ritmica e riflessiva ricerca di vie di fuga dall’ordine del discorso. Verso la fine dei suoi verdi anni questo gran virtuoso del contrabbasso, Scodanibbio, si rivelò compositore magistrale e anti-disciplinare.

Lomuto, che possiede un suono magnifico sia nel ruvido dei gravi «alterati» sia nei passaggi che chiedono delicatezza, sceglie la teatralità. Lo dichiara in un ampio discorsetto introduttivo. Nella Sequenza V (1966) di Luciano Berio, da tempo un suo cavallo di battaglia e questa volta resa ancor più «irregolare» e «trasgressiva». In Intermedi e canzoni (1986) di Azio Corghi, in Respiro (1987) di Luca Francesconi, in Hoquetus (2006) di Vito Palumbo, in Voliera (1986) di Sylvano Bussotti (e qui va in duetto con Ottaviucci). I vocalizzi integrati nelle emissioni del trombone contenuti nel lavoro di Berio diventano vere e proprie virate nel parlato clownesco con i lavori di Corghi e Palumbo. Questo Lomuto piacerebbe ai teatralissimi e clowneschi Han Bennink e Misha Mengelberg. E infatti tra le sue esperienze polimorfe ci sono alcuni incontri con loro. Di cui non sappiamo niente ma li immaginiamo goduriosi.