«Un unico tema, ma in situazioni diverse ogni volta più estreme, più impossibili». Così riassume il suo cinema Amir Naderi quando ne parliamo in occasione della proiezione di Monte, suo ultimo film, passato fuori concorso al Lido, vincitore del Premio Camillo Marino alla Carriera 2016 al Laceno D’oro e uscito nelle nostre sale il 24 novembre. «Trent’anni di film per capire come spingere i miei personaggi, ma anche me stesso, oltre i limiti ordinari, a sopravvivere in situazioni impossibili». Il regista di Il Corridore, Manhattan e Vegas sembra aver centrato l’obiettivo, i personaggi di Monte accettano una sfida impensabile, di limite, e la lavorazione è stata avventurosa al punto che Naderi ha rischiato di morire due volte cadendo. «la seconda sono scivolato in un crepaccio. Nessuno se ne è accorto per quasi cinque minuti e io mi reggevo con le sole braccia. Ero certo di morire, allora ho pregato il monte: «ti prego fammi finire questo film, ti prego ti prego». L’aneddoto è significativo. Per quattro mesi una troupe di settantacinque persone ha bivaccato a più di tremila metri sul gigantesco monte Latemar, in Trentino, e su alcune irte cime friulane, tra le rocce, abbarbicati su pareti a strapiombo. Anno mille. Agostino (Andrea Sartoretti), Nina (Claudia Potenza) e loro figlio Giovanni (Zac Zanghellini) seppelliscono, ultima di molti parenti, la figlia minore, uccisa come tutti dalla mancanza di sole. Il monte oscura quella terra con la sua ombra che tutto fa ammalare e uccide, la gente, le poche colture di Agostino e i suoi piccoli commerci, ogni suo tentativo di rinascita. Da quell’ombra nasce la sua rabbia, una volontà disperata di riscatto in roboante crescendo wagneriano, che lo porterà ad accettare una sfida impensabile contro quel monte e lo condurrà a un finale inaspettato e grandioso, di una bellezza luministica da levare il fiato. Fatale fu per il regista l’incontro con la maestosità dei nostri monti che per lui «sono unici al mondo, ti fanno sentire come se fossi al cospetto di un dio atavico, di una forza primordiale» e hanno, lo dice da attento studioso della luministica in Caravaggio, «una luce speciale, color del miele o dell’ambra e delle notti incredibilmente cristalline, argentate, come lame»
Visto che parli della luce dell’Italia qual è in particolare la luce in «Monte», in cui ombra e luce dominano tanto la storia che l’estetica d’immagine?
Tutto il film è sull’ombra. Il monte, proietta da milioni di anni la sua ombra su quelle terre rendendole impossibili da abitare e malsane al punto di aver ucciso tutti i parenti di Agostino, una terra di morte. Abbiamo lavorato molto su luce e cromie, perché volevo che questa dimensione di morte del monte fosse espressa prima di tutto dai colori. Solo la scena con la ragazzina morta e quella del sogno felice sono a colori, hanno i colori veri della vita il resto è morte, tutta la parabola dolorosa di Agostino ha quei colori. Il pieno colore torna solo nel finale, quando crolla il monte e il sole fa irruzione col suo calore e luce riportando i colori, non al sogno stavolta, ma alla vita reale. È una metafora dell’uomo che compie l’impossibile, supera i limiti imposti dalla natura, ma è anche una proiezione del mio processo di creazione di un film. Dal colore morto della fase di sofferenze e sacrifici che richiedono sia le imprese estreme che la lavorazione di un film, si ritorna alla vita, al colore, si rinasce, solo quando il risultato è raggiunto, il che implica sempre una fede e una volontà incrollabili, come quelle di Agostino.
L’uomo, quindi, è il vero elemento perturbante degli equilibri di natura…
L’uomo e solo l’uomo potrà mutare una condanna all’ombra vecchia quanto il mondo, e potrà farlo solo grazie al suo coraggio e, più di tutto, grazie alla fede incrollabile. La fede è fondamentale se vuoi rendere possibile l’impossibile. La questione non è vincere o perdere, lo fai perché non hai scelta e senza la volontà consapevole di superare i limiti, di cambiare la natura. Agostino non decide di essere colui che riporterà il sole nella valle, vuole risolvere i problemi suoi e della sua famiglia, ma nel farlo salverà la vita di tutti, ottiene un risultato che è universale.
Agostino non riesce a pregare ma in seguito distruggerà anche il talismano demoniaco che gli regala la fattucchiera…la fede di cui parli sembra non coincidere con la «religione», il culto ufficiale…
Questo è uno dei temi più interessanti del mio film. Personalmente credo a ogni religione, Dio, a ogni fede, e con Monte ho cercato un lascito di speranza, un messaggio positivo per un’epoca in cui molti vivono le religioni come forma di dipendenza, di deresponsabilizzazione, perché affidano a una presunta volontà divina e a un sistema di regole di comportamento codificate le proprie scelte e comportamenti senza esercitare alcuna autonoma volontà decisionale. Agostino vuole determinare da sé il proprio destino e non accetta aiuti e condizionamenti esterni, angelici o demoniaci che siano. È un incoraggiamento a mantenere sempre un atteggiamento autonomo in tutti gli aspetti della vita, a pensare in maniera indipendente e ogni religione, chiesa o Dio dovrebbe ambire ad avere seguaci così.
La cosa più impressionante del film è questa sorta di…ruggito, o boato o urlo, non so neanche descriverlo, che emette la montagna
Curo personalmente il sound design e non giro niente se prima non ho un’idea sul suono che deve avere. Qui mi serviva un mezzo per esprimere gli immensi e oscuri poteri del monte, e che mi permettesse di far sentire il monte come personaggio vivo, non come ambiente. Sono partito da Wagner, dai suoi effetti di crescendo e ho lavorato su questo suono come su una sinfonia. Non ci sono synth o effetti digitali, è fatto solamente mixando i veri suoni della natura, del vento, delle pietre, del tuono ecc perché doveva essere il respiro, il ruggito rabbioso della natura.
Un montaggio secco, di stacchi netti e una recitazione essenziale, naturale
L’immagine-guida per il montaggio è quella del martello e della roccia, colpi secchi e potenti. Corrisponde al tipo di vita brutale di quei personaggi, che non vivevano passaggi morbidi, dissolvenze, tra le situazioni, ma erano colpiti, martellati dagli eventi. La recitazione, invece, è il risultato di un processo lunghissimo prima di approfondimento e scambio reciproco, per cui tutti, attori, cameraman, direttore della fotografia sono diventati Amir Naderi, hanno imparato a pensare come lui, poi di interiorizzazione della montagna. Magari mettevo un attore davanti alle rocce e doveva concentrarsi solo su quelle per ore, senza parlare con nessuno, dormendo lì, se necessario. La recitazione è stata costruita a partire da quelle sensazioni, quindi tutto è stato poi molto naturale.