Fino a che punto dovrà arrivare la trama stragista prima di fermare il sanguinario presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi? Oltre cento morti nel Sinai si sommano alle centinaia di vittime che negli ultimi due anni hanno segnato la guerra tra esercito e jihadisti. E alla morte eccellente dello scorso lunedì, nel gravissimo attentato di via Mostafa el Nahas ad Heliopolis, del procuratore Hisham Barakat, uno degli artefici delle oltre mille condanne a morte contro gli islamisti e degli ergastoli ai giovani dei movimenti.

«Eseguiremo le pene di morte», ha gridato al-Sisi alla fine dei funerali di Barakat riproponendo il volto vendicativo dello Stato come da due anni a questa parte. Ormai l’ex presidente Morsi o il murshid Badie potrebbero ad horas apparire appesi a una forca e allungare la lista dei leader della Fratellanza assassinati o condannati a morte da Sayd Qutb a Hassan al-Banna,

Ad ogni ondata di violenze corrisponde, come è ormai prassi consolidata, un inasprimento della repressione già a livelli senza precedenti nel paese. E così al-Sisi ha colto l’attimo per annunciare riforme per velocizzare la giustizia penale. Per il sanguinario ex ministro della Difesa non dovranno passare anni prima che i leader del principale partito di opposizione, messo fuori legge lo scorso anno, vengano impiccati. Secondo lui, gli islamisti in carcere continuano ad ordinare stragi da dietro le sbarre.

Il governo egiziano ha accusato proprio i Fratelli musulmani di essere responsabili dell’attentato contro Barakat. Il movimento islamista ha negato responsabilità nell’agguato che ha sventrato le vie adiacenti all’Accademia militare.

Per tempistiche e modalità anche questo attacco sembra rispondere alla logica della lotta di potere all’interno dei Servizi segreti militari e civili dopo il colpo di stato di cui domani ricorre il secondo anniversario. Strategia che viene confermata anche dall’attivazione simultanea dei jihadisti del Sinai. Venti attivisti del gruppo jihadista Resistenza popolare, affiliato al gruppo Beit al-Mekdisi, che spopola nel Sinai, e vicino allo Stato islamico, sono stati arrestati ieri a Giza con l’accusa di aver preso parte all’attentato.

E così sono stati cancellati i festeggiamenti del 30 giugno, seconda ricorrenza della protesta, innescata dai militari per giustificare il golpe infiltrando di agenti il movimento Tamarrod (ribellione). Il ministro della Giustizia al-Zind ha anche cancellato le ferie per i giudici.

Proprio ieri Amnesty International ha pubblicato un report («Dalle piazze al carcere») in cui denuncia la repressione dei movimenti giovanili in Egitto. Se i giovani sono stati additati come il simbolo delle proteste del 2011, il loro impegno a favore di libertà e giustizia sociale è finito dietro le sbarre. Secondo il think tank, restano in prigione oltre 40 mila attivisti nel paese, tra loro alcuni tra i più strenui difensori al mondo dei diritti umani, che subiscono processi irregolari.

Amnesty cita gli attivisti Ahmed Maher e Mohamed Adel del movimento fuori legge 6 aprile, il blogger Ahmed Douma, l’attivista socialista Alaa Abd El Fattah, i difensori dei diritti umani Yara Sallam e Mahienour El-Massry. Insieme a loro, il report ricorda il carcere duro a cui sono sottoposte le voci critiche contro il golpe dal cittadino irlandese Ibrahim Halawa, alle studentesse Abrar Al-Anany, Menatalla Moustafa e l’insegnante Yousra Elkhateeb.

Altri sono in carcere da lungo tempo senza accuse né processi. Tra questi, viene citato lo studente Ahmed Hussein, arrestato mentre tornava a casa dopo aver preso parte a una protesta, solo a causa dello slogan scritto sulla sua maglietta.

Solo ieri è stata diffusa la notizia del corrispondente de El Pais al Cairo, Ricard Gonzalez (a cui va la nostra solidarietà), costretto a lasciare il paese per una minaccia di arresto. Gravissimi sono stati i provvedimenti presi contro i giornalisti di Al-Jazeera costretti a preferire l’espulsione a sette anni di carcere. Amnesty ha infine puntato il dito contro la legge anti-proteste.

Secondo il think tank, la reazione delle autorità egiziane è stata sempre sproporzionata rispetto all’entità delle contestazioni che sono andate avanti a bassa intensità dopo il golpe.