«L’amore estremo ha un appetito insaziabile». In queste poche battute compare il segno di Iris Murdoch, per la precisione di ciò che fa dichiarare a uno dei suoi personaggi letterari, Martin Lynch-Gibbon protagonista del romanzo del 1961, A Severed Head, ora Una testa tagliata (Il Saggiatore, pp. 251, euro 19) a cura di Cristina Tizian e tradotto da Gioia Guerzoni. La cifra distintiva dell’agiato quarantenne londinese Martin è, tuttavia, al centro di una narrazione più obliqua della furia amorosa e le sue cadute. È infatti nelle abitudini di Murdoch intrecciare molte esistenze singolari, dare loro il carattere tormentoso e corale di chi si fa pungolare dall’eventualità e dal desiderio di comprensione, rinunciando all’algidità del concetto per andare alla ricerca dei corpi e di ciò che accade tra loro.

Niente è casuale nella costruzione dei racconti a cui ci ha abituati l’autrice, nonostante nella sua scrittura letteraria vi sia esplicitamente più leggerezza, libertà di movimento. È lei stessa a farlo intuire in una conversazione con Brian Magee (1978), quando afferma che la letteratura intrattiene e fa molte cose, mentre la filosofia ne fa solo una. Nonostante per tutta la vita le abbia praticate e maneggiate entrambe con sapienza, la filosofia e la letteratura sono state per Murdoch i punti di un doppio passo che non ha inteso giustificare né risolvere. Anche se è differente la difficoltà della materia da cui partono, sia l’una che l’altra – lo ammette – hanno a che vedere con la verità. E in particolare la letteratura quando si misura con la memoria e in alcuni casi rende addirittura felici, capace com’è di mostrarci il mondo. Ecco la qualità della scrittura che sa confrontarsi con le contraddizioni coriacee del reale, che abbandona il rigore sillogistico per esplicitare come si possa arrivare a un pensiero che sia incarnato, e al contempo imperfetto.

Una separazione incarnata

Una testa tagliata è dotato di grande carica simbolica fin dal titolo, conduce a domande immediate. Durante la lettura veniamo subito a conoscenza che il taglio e ciò che ne rimane circolano nelle conversazioni tra i protagonisti su più livelli. Cioè se di crani e teste mozzate è sanguinosamente colma la storia – più o meno dal paleolitico a oggi – il taglio che qui si illumina è una separazione, intanto nella consapevolezza che «certe persone sono più il loro corpo di altre» e che «la testa ci rappresenta più di tutto il resto, è l’apice della nostra incarnazione», insieme alla conseguenza di considerare servibile una relazione con chi si priva di parti di sé. Dice infatti Martin: «non credo che mi piaccia molto, una testa senza il corpo (…) Mi sembra un vantaggio sleale, una relazione illecita e incompleta».

Nessun esito truculento allora, è invece sull’orlo delle relazioni quotidiane che si spalanca la storia di Martin, Honor, Antonia, Palmer, Georgie in cui l’unica privazione visibile è ciò che mediamente si mette in scena – affettivamente ed eroticamente, attraverso tradimenti, scambi, prevaricazioni e languori fuori tempo massimo. Seguendo i personaggi e le personagge di Murdoch può accadere di essere indulgenti verso le altrui e le proprie ambivalenze, le distanze calcolate, le ambiguità concesse come vie di fuga, fino ad arrivare al punto importante: il «filo d’intimità» di cui chiacchierano i protagonisti quando viene scambiato malamente con la familiarità.

Il nodo dell’intimità

D’altro canto, Martin è in cerca di salvezza: «un amore potente e colossale, che non avevo mai conosciuto prima di allora». Un’insistenza totalizzante, insomma, che attraverso la vulnerabilità di cui si è fatti si scontra con la ridda tumultuosa degli altri, prevedendo spesso «un brutto garbuglio di intimità e amore». Allora nella restituzione del rituale tanto ben descritto da Murdoch, per bocca della misteriosa Honor si trova forse un’ulteriore lettura: «Sono come una di quelle teste tagliate che usavano le tribù primitive o gli alchimisti; le ungevano d’olio, e mettevano una scheggia d’oro sulla lingua perché condividessero le loro profezie. E chissà, forse una lunga consuetudine con una testa tagliata potrebbe portare a una conoscenza davvero anomala delle cose. Ma tutto ciò è lontano dall’amore».

Che l’idea di intimità sia tangente a quella di amore è un dato che attraversa la storia del pensiero e delle sue numerose rappresentazioni. Altrettanto nota è la confusione che spesso viene a configurarsi tra i due termini – limitrofi, scivolosamente contigui ma che a ben guardare non sono sinonimi. Del resto «ci sono persone, comprese quelle accoppiate o sposate, che mai, in tutta la loro vita, sono entrate in intimità». Hanno vissuto per anni l’una accanto all’altra ma senza per questo immaginare di sporgersi, anzi «non ne hanno nemmeno sospettato la possibilità; non hanno mai oltrepassato questa soglia, non ci hanno nemmeno pensato (…) L’Altro è diventato un essere familiare ma non intimo». Concentrandosi invece sull’intimità come risorsa, si può fare uno spostamento; di questo ci informa Françoise Jullien nel suo De l’intime. Loin du bruyant amour (Grasset, 2013), finemente tradotto da Rosella Prezzo. Idealmente seconda parte del ragionamento cominciato nel 2011 con Philosophie du vivre (Gallimard 2011), il saggio di Jullien Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore (Raffello Cortina, pp. 191, euro 14) apre a una accurata disamina della questione, anzitutto precisando che l’intimità è il contrario dell’intimistico. Ha piuttosto a che vedere con il paradosso dell’accostarsi al limite. Accolta molto meno di quanto si immaginerebbe, nell’uso comune rappresenta ciò che è celato, addensato all’interno delle cose e al fondo della soggettività, poi rintracciabile anche in un fuori che determina una relazione con altro da sé.

L’intimità è infatti una prossimità con se stessi e con altri, determinando secondo Jullien il doppio segno di raccoglimento – stando profondamente presso di sé – e di condivisione – toccando altrettanto profondamente l’altro da sé. Il passaggio ulteriore stabilisce l’implicazione di interno ed esterno, cioè quando si arriva al proprio intimo, al limite di un interno, si trova anche l’apertura verso gli altri, le altre.

Una morale indiziaria

Idea suggestiva, in molti hanno provato a pensarla: «L’intimità non è tanto la felicità perfetta quanto l’ultimo passo per arrivarci». Stendhal nel suo De l’amour sembra esserne sicuro, un po’ meno Roland Barthes quando nei suoi famosi e bellissimi Fragments cita l’intimità in relazione alla ferita nel centro del corpo, più è aperta e «più il soggetto diventa soggetto»; tale, prosegue, è la ferita d’amore che non riesce a richiudersi. Secondo Jullien più semplicemente «in un mondo che si rovescia, in un totale ribaltamento, l’intimità, a sua volta, si rovescia e fa precipitare». E quindi spesso viene scansata provocando perdita e miseria affettiva – che è sempre simbolica.

Per Jullien è così importante porla all’attenzione che può essere addirittura considerata l’inizio di una morale seppure indiziaria, senza quindi un fondamento necessario ma aperta alla categoria della possibilità – e, come direbbe il filosofo, di vitalità. Si chiarisce meglio cosa Jullien intenda quando avverte che l’intimità non è un valore, né tanto meno una virtù, non si ammanta di nessun dover essere. E anche se non rimanda immediatamente a una responsabilità è pur vero che scegliendola ci si impegna. Si può rispondere al suo appello, oppure no.

Forse è sufficiente dire che sia l’intimità che l’amore, esperienze entrambe, possono accostarsi pericolosamente al frastuono se non se ne capiscono i segnali; insieme a Lily Briscoe creata da Virginia Woolf nel suo To the lighthouse, potremmo spingerci allora a considerare che desiderare l’intimità stessa è conoscenza. Anche Iris Murdoch e Françoise Jullien non potrebbero che essere d’accordo. In fondo «Chi sa che cosa siamo? Che cosa proviamo? Chi sa, perfino nel momento dell’intimità, questo è sapere?»