L’altra volta Alfano era seduto alla sinistra del presidente del Consiglio, non alla destra. E non aveva ancora gli occhiali. Ecco le differenze. Per il resto, ordinato nei suoi banchi alla camera, il governo sembra una foto dimenticata da mille giorni: era più o meno così, a parte la polvere. Nel nuovo governo ci sono tutti i vecchi ministri; chi manca (Mogherini, Lupi, Lanzetta, Guidi) era andato via da tempo. Tranne Stefania Giannini, evidentemente la vera responsabile della vittoria del No.

Perché c’è stata la vittoria del No al referendum, anche se Boschi è sempre lì, gomito a gomito con il presidente del Consiglio. Anche se non è più Matteo Renzi, ma Paolo Gentiloni.

Gentiloni non ha il Mac che aveva Renzi due anni fa, ma una matassa di foglietti su carta intestata palazzo Chigi. Non parla a braccio ma legge. Non va avanti per settanta minuti ma per diciassette. Non tiene le mani in tasca ma composte. Però del referendum non dice, se non nella replica, dopo che molti glielo hanno fatto notare. Era sottinteso, spiega, del resto «se stasera sono qui…». Il nuovo premier cita Tenco, mentre quello vecchio citava Jovanotti e Fabio Rovazzi. Le differenze nello stile ci sono tutte. Nel programma un po’ meno. Anche se la notizia è che il governo Gentiloni ha un programma.

Un programma nemmeno troppo stringato. Si parte dagli interventi per il dopo terremoto, si passa per il Consiglio Ue di domani, la sicurezza, la ripresa economica, le banche, le risposte da dare «alla parte più disagiata della classe media, partite Iva e lavoratori dipendenti», il mezzogiorno, le riforme da completare della pubblica amministrazione, del processo penale e delle forze armate, le pensioni… La legge elettorale, quella che nelle intenzioni di Renzi doveva essere l’unica ragione di vita del governo, arriva alla fine dell’elenco. Spostata Boschi nel cuore di palazzo Chigi, adesso c’è una ministra delegata di grande esperienza, Anna Finocchiaro, eppure per Gentiloni «il governo non sarà l’attore protagonista» sulla legge elettorale, si limiterà a «facilitare e sollecitare» il lavoro del parlamento. Il che sarebbe anche corretto, non venisse dagli stessi protagonisti dell’Italicum, che è passato proprio qui alla camera con tre voti di fiducia al governo.

Il profilo basso non sembra piacere troppo alla maggioranza renziana, tant’è che la dichiarazione di voto del capogruppo Rosato comincia con un non troppo cortese «questo non è il governo che volevamo» e finisce con un avvertimento: «Nessuno pensi di usare la legge elettorale per far durare di più la legislatura».

Gli sconfitti al potere nel Pd hanno i nervi tesi sull’argomento durata. Infatti non gradiscono nemmeno il garbo costituzionale di Gentiloni, che non assegna una scadenza al governo ma naturalmente ricorda: «Il governo sarà in carica fino a che avrà la fiducia del parlamento». Quella conquistata ieri sera alla camera è appena un po’ più bassa del primo Renzi, 368 Sì contro 378. La differenza maggiore sta nel numero dei votanti, visto che non partecipano al voto né grillini né leghisti. E nemmeno i verdiniani che con imbarazzo confessano di dover uscire dall’aula per evitare di votare a favore. Condividono tutto, ma non hanno avuto un posto di governo e proprio il mancato ministro Zanetti deve intervenire per confessare di non aver capito il perché (mentre i monitor interni crudelmente ne rimandano l’immagine con il vecchio sottopancia, «vice ministro economia e finanze»).

Gentiloni conduce il suo affondo contro il Movimento 5 stelle più per dovere che per convinzione, a voce bassa: «Vedo che i super paladini della centralità parlamentare hanno abbandonato il parlamento», dice. Anche il discorso sulla rete lo infila in una frase un po’ démodé: «Questo parlamento non è un social network». Lo stile, alla fine, è tutto quel che fa la differenza: «Avremo bisogno di una discontinuità almeno nel confronto pubblico, non mi ritrovo nella degenerazione della politica, non mi rivolgerò a quelli del Sì contro quelli del No». Su questa frase l’unico applauso, ma anche questo un po’ dimesso.