Non sarà una scoperta, ma questo Far East ha confermato l’ascesa di una nuova star orientale, o meglio la bravura di un’ottima attrice, Ando Sakura, già interprete, tra gli altri, di Love Exposure e di Asleep tratto da Banana Yoshimoto. Presente al festival con due film, 0,5 mm (diretto dalla sorella Momoko Sakura e prodotto dal padre, il regista di Okuda Eiji) e 100 Yen Love di Taku Masaharu, in entrambi interpreta personaggi marginali, socialmente disadattati, ma dotati di risorse impreviste e di un understatement ironico.

In 0,5 mm, nel ruolo di Sawa, si prende cura di alcuni uomini vecchi, in un road movie scombinato, che però regge la lunga durata, contocchi di umorismo dark ma anche con una certa bonomia verso i comportamenti della badante per caso e dei vecchietti stessi, non proprio degli stinchi di santo. Sawa si adatta a dormire con un anziano moribondo, costringe un altro a restituire le bici di cui si è appropriato e lo porta al karaoke; alla fine ci guadagna soltanto un cappotto, un’auto d’epoca e 100mila yen. Interrogata sulle sue motivazioni Sawa non risponde; in effetti in entrambi i film non vengono fornite spiegazioni ai suoi comportamenti eterodossi eppure l’attrice giapponese rende credibili i personaggi.

Successo di critica e una lunga permanenza nelle sale giapponesi, il film ha fruttato a Ando Sakura diversi premi. In 100 Yen Love (premiato al festival di Tokyo) invece è una ragazzona sbandata che se ne va di casa e lavora in un negozio da 100 yen (tipo i nostri 99c) ma presa una cotta per un pugile perdente comincia a praticare il pugilato e diventa quasi una persona responsabile, affrontando una dura sconfitta sul ring. Al di là della sua capacità di boxare davvero, è il modo intenso e rabbioso con cui propone il personaggio che commuove e sorprende, quando, come un’Anna Magnani spettinata e volutamente sciatta, riesce a trasformarsi con un sorriso in una donna intrigante. Questi film raccontano un Giappone fatto non solo di manga e di ragazzini autodistruttivi ma soprattutto di vecchi intristiti, che riflettono sulle tragedie del passato.

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Il Far East è molto ospitale verso i generi orientali più popolari: oltre alla fantascienza quindi in programma molti crime. Buon livello per il sud-coreano Gangnam Blues di Yoo Ha, che come altri film del festival ascrive i mali di queste società in superveloce sviluppo alle speculazioni delle grandi immobiliari, che nello specifico hanno trasformato una zona rurale povera di Seoul nel quartiere degli arricchiti, Gangngnam. Il film segue l’ascesa di due ragazzotti nelle bande criminali, rivelando, nel segno del tradimento, la spietata lotta per il potere da parte dei politici, con un tasso di violenza e un’ambiguità tipicamente noir. Critico dell’aggressività cinica del nuovo capitalismo anche l’altro sudcoreano, Cart, che, come in un vecchio film sovietico, racconta la lotta collettiva delle commesse di un supermercato che produce in loro una progressiva presa di coscienza – storia vera, raccontata con partecipazione capace di commuovere, dalla regista Boo Ji-jung assistente in passato di Hong Sangsoo.

Critico verso le politiche di controllo territoriale anche The Continent del popolare scrittore e blogger cinese Han Han che racconta il viaggio di due amici (erano in tre, ma uno, piuttosto ritardato, lo perdono per strada) che lasciano la loro isola, ormai deserta, e attraversano il continente per raggiungere la nuova destinazione del giovane insegnante. Momenti di comicità intelligente e costruzione di personaggi interessanti con una volontaria astensione dall’equilibrio narrativo, in un viaggio in terre sempre più astratte e deserte, fino ai confini di una piattaforma missilistica, sulle note improbabili di Que sera sera. Nel documentario Garuda Power Bastian Meiresonne ha raccontato la storia del glorioso cinema indonesiano d’azione in cui l’eroe del popolo, simboleggiato da Jaka Sembung e interpretato dalla star Barry Prima, affrontava con le arti marziali, nemici autoritari; dopo una profonda crisi, il genere approda all’attuale The Raid, che riprende le marziali acrobazie con gusto global. Prima partecipazione al festival di un film cambogiano (e premio del pubblico Black Dragon) The Last Reel della regista Sotho Kulikar, è un interessante melodramma storico. Anche qui il meccanismo di partenza è la speculazione edilizia che porta alla chiusura di un vecchio cinema dismesso, il cui atrio funge da parcheggio di motorini. Una ragazzina si avventura nella sala mentre il gestore-proiezionista guarda un film in costume girato mentre i Khmer Rossi occupavano Phnom Penh, privo però dell’ultimo rullo.

Avendo scoperto che l’attrice è sua madre da giovane, ora assai fragile di nervi (interpretata dalla star del cinema Khmer, Dy Saveth) la ragazza decide di fornirgli un finale, ma nel corso dell’operazione scopre che la madre amava il regista, condannato alla rieducazione dai militari di Pol Pot, e che è stata salvata dal padre, che era un Khmer, ma anche che il proiezionista non è affatto la vittima innocente di una crudele situazione politica.

Interrogandosi sull’ambiguo confine tra verità e finzione, o meglio tra realtà e Storia, il finale ricreato chiude la storia nell’oggi, con confessioni ed espiazioni che non cancellano però le colpe e non assolvono neppure il presente, visto che la protagonista fa la cantante da birreria e frequenta una gang di piccoli criminali in moto, ma si chiude con le foto e i nomi di attori e gente del cinema che i Khmer, avendo scelto questo settore come bersaglio ideologico privilegiato, hanno giustiziato, scoprendo che «nuove storie sono pronte per essere raccontate dalla nostra generazione.»