Bang Bang, girato in undici giorni, è un film che meriterebbe un libro intero, scriveva Jairo Ferreira, come Deus e o Diabo na terra do sol (Il dio nero e il diavolo biondo) di Glauber Rocha, o O bandido da Luz Vermelha di Rogerio Sganzerla. Un film che ha i più bei travelling della storia del cinema, diceva. Serras da Desordem, dieci anni di riprese per 140 ore di girato tra video, 35 e 16 millimetri, è uno dei documentari più belli che siano mai stati fatti non solo in Brasile, un film che racconta da vicino la vita e il massacro degli indios Awa-Guja nel Maranhão attraverso gli occhi di uno di loro, Karapiru, che dal 1977 al 1988 percorse a piedi duemila chilometri in fuga dal suo villaggio.

 

 

In mezzo a questi due capolavori, uno considerato «underground» e l’altro «documentario», scorre tutta la vita di Andrea Tonacci, italo-brasiliano nato a Roma nel 1944 e morto pochi giorni fa a Sao Paulo a settantadue anni, personaggio poco conosciuto in Europa, considerato uno dei fondatori del cinema underground in Brasile assieme a Rogerio Sganzerla, Julio Bressane, Carlos Reichenbach, un pioniere del video, e uno dei più grandi studiosi della cultura indios nel proprio paese.

 

 

Ma Tonacci si vedeva soprattutto come un cineasta isolato, difficilmente etichettabile. «Non è che non mi riconoscessi – mi disse quando lo intervistai nel 1996 – Ma era difficile all’epoca vedersi inseriti in una corrente che era considerata marginale. Anche se realmente era fatta al margine, indipendentemente… Marginale, ecco, forse lo ero io, personalmente». E, di certo, dal Cinema Novo di Glauber Rocha e Carlos Saura non avevano mai avuto aiuti, anzi. «Ognuno di noi ha dovuto cercarsi una strada sua e se esistiamo è solo grazie a una lettura critica che viene da fuori, dall’estero».

 

 

Tonacci si sposta con la famiglia da Roma a Sao Paulo nel 1953 e lì studia prima architettura e poi cinema. Nel 1965 gira il suo primo corto, Olho por Olho, e collabora come direttore della fotografia a un corto del suo amico Rogerio Sganzerla, Documéntario. Nel 1968 gira Blà Blà Blà, una specie di saggio dedicato alla retorica della politica, con frasi riprese da Hitler, Gandhi, Mussolini, che gli provocò, in piena dittatura, i primi seri problemi e molte minacce che lo spinsero a allontanarsi dal Brasile («Sono stato in Inghilterra sei mesi, e poi altri sei in Italia»). Torna. E Bang Bang, il suo primo lungometraggio, girato a Belo Horizonte nel 1969, venne proiettato a Cannes alla Quinzaine des Realisateurs nel 1970 e salutato come un piccolo capolavoro. «Io ero giovane, Fu una cosa entusiasmante. C’erano persone molto note, come due o tre dei Beatles che erano là per il Festival seduti in platea a vedere il mio film».

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L’idea centrale del film era che ciascuna delle sei-sette scene del film, girate in grandi piani sequenza, vivesse di vita propria e il film potesse così essere proiettato anche scambiando tra di loro queste scene. «Quando poi è uscito in sala ho dovuto dare un ordine alle sequenze, che è poi quello definitivo». In realtà Bang Bang venne mostrato per sei giorni in una sala di Sao Paulo e poi subito tolto. Stavolta non a causa della censura, scriveva Jairo Ferreira, ma dell’industria cinematografica, che non tollerava questa «libertà godardiana» estremamente liberatoria che vedemmo tutto e che ci preannunciava una sorta di montaggio sovversivo alla Tarantino.

 

 

Invece di aprire a Tonacci le porte del cinema internazionale, Bang Bang gli chiuse pure quelle del cinema nazionale. Ma già nel 1972 lo troviamo ttivissimo nel video e nel documentario. Si dividerà, negli anni Settanta, tra lavori in televisione, in pubblicità, riprese di musicisti come Miles Davis a Sao Paulo o di artisti come Jimmy Durham, e i primi grandi viaggi nella cultura degli indios. Nel 1975 segue la compagnia di Ruth Escobar per le riprese di un documentario, Interprete mais, ganhe mais, dedicato alla messa in scena e al tour di un suo spettacolo da Calderon de la Barca, che ebbe non pochi problemi a causa della estrema libertà del film di Tonacci, che riprese l’attrice anche nei momenti più intimi. Il film venne fatto vedere solo nel 1995.

 

 

 

 

Nel 1976 arriva Conversas do Maranhão, il primo dei suoi film dedicati agli indios, che lo vide tre mesi sepolto nella regione. Tonacci, in questi documentari, gira sia in video, che in 16 che in 35 millimetri e poi monta ore e ore di materiali. E cerca, negli occhi degli indios, quelli che non avevano mai avuto nessun contatto con la tecnologia, qualcosa di purissimo e incontaminato. «Ho partecipato a una spedizione che prevedeva un primo incontro con un gruppo indio che non era mai stato contattato dai bianchi. A questo punto ho messo la macchina da presa in mano a queste persone e ho cominciato a scoprire molte cose fino ad arrivare all’idea che qualsiasi tecnologia, se la metti in mano a una qualsiasi persona, diventa una forma di dominazione».

 

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Tonacci non abbandonerà più il Maranhão e mettendo in scena l’incredibile avventura di un indigeno, Karapirù, che interpreta se stesso, girerà quello che è giustamente considerato il suo capolavoro, Serras da Desordem, uscito dopo un’attesa di dieci anni e che vinse nel 2006 il festival di Gramado come miglior film.
Fuori dalla polemica tra cinema novo e cinema underground, la figura di Tonacci in questi ultimi anni è cresciuta proprio grazie alla serietà estrema del suo lavoro, alla sua totale libertà e al fatto di essere riuscito a mantenere intatta la propria integrità di cineasta. Se Serras da Desordem, che vedemmo al Festival di Torino nel 2006, è un capolavoro ormai riconosciuto, il suo ultimo film, Jà visto, jamais visto, proiettato al Festival di Roma nel 2014, è un nostalgico montaggio di vecchie immagini recuperate dal regista.
Celebrato in Brasile un po’ ovunque, Tonacci se ne va vedendo finalmente riconosciuto il valore e la bellezza del suo cinema. Ma riguardate i suoi incredibili piani sequenza di Bang Bang su you tube. Davvero difficile, godardianamente, fare di meglio.