I peshmerga sono entrati a Kobane. Partiti da Irbil due giorni fa, ieri hanno attraversato il territorio turco a bordo di autobus scortati da veicoli militari e annunciati dalle bandiere kurde che sventolavano dai finestrini. Ad accoglierli al confine (nella foto reuters) migliaia di kurdi turchi e siriani che da oltre un mese assistono alla battaglia di Kobane dalla frontiera.

Sono poco più di 150 i peshmerga inviati dalla regione autonoma del Kurdistan a combattere al fianco dei kurdi di Rojava, seppur – tengono a specificare funzionari governativi – non saranno impiegati in scontri diretti. Con l’artiglieria di fabbricazione Usa a disposizione sosteranno i combattenti delle Unità di protezione popolare, le uniche che resteranno in prima fila.

Ieri nell’ingresso a Kobane i peshmerga non erano soli: con loro un gruppo di miliziani dell’Esercito Libero Siriano, forza moderata anti-Assad. Centocinquanta, secondo funzionari turchi rimasti anonimi. Da Ankara non giungono conferme alla notizia che rientrerebbe però nel piano del presidente Erdogan: usare Kobane per far cadere il governo Assad. Su questo puntava Ankara quando ha accolto le pressanti richieste Usa di un intervento immediato nel nord della Siria. Un intervento limitato – il via libera al passaggio di 150 peshmerga, quando allo stesso tempo lo impedisce ai miliziani del Pkk – che però ha permesso alla Turchia di compiere il primo passo. Poco ha a che fare con la strategia militare: peshmerga e opposizioni armate non faranno la differenza in campo, contro le capacità militari dell’Isis, ma indeboliranno la componente Pkk nei cantoni di Rojava e imporranno l’agenda di Ankara di cui entrambi – il governo kurdo iracheno di Irbil e Els – sono alleati.

Lo ha ribadito ieri lo stesso premier turco Davutoglu: la guerra all’Isis deve essere guidata dall’Esercito Libero Siriano e non dai «terroristi del Pkk». «Addestrare l’Els così che, se l’Isis abbandona, il Pkk non dovrà prenderne il posto», questa la stella polare di Ankara. Che però sembra fare troppo affidamento sulle opposizioni moderate siriane. Kobane non è la sola città sotto assedio jihadista: la Siria di oggi ne conta sempre di più, sempre più Kobane, sempre più comunità che subiscono l’avanzata del nuovo asse Isis-Al Nusra. Ne pagano lo scotto sia il governo di Damasco che la Coalizione Nazionale e il suo braccio armato, l’Els, che nei giorni scorsi ha perso a favore degli islamisti una serie di comunità alle porte di Idlib. Ieri un’autobomba è esplosa nel quartiere di Zahra nella città di Homs, controllata oggi da Damasco, ferendo 37 persone. Nelle stesse ore miliziani dello Stato Islamico attaccavano un giacimento di gas e greggio a Shaer (sempre a Homs): almeno 30 i morti durante gli scontri durati tutto il giorno. Il giacimento è adesso parzialmente in mano all’Isis.

Fondamentale all’ampliamento delle casse di al-Baghdadi, che vive anche di contrabbando di petrolio, è anche un secondo giacimento, stavolta in Iraq: la raffineria di Baiji, la seconda del paese, è in mano all’Isis da luglio. Ieri l’esercito governativo ha annunciato un’avanzata di un paio di chilometri dentro la città occupata. Una piccola vittoria messa in ombra dalle tante sconfitte registrate da Baghdad, da oltre un mese target giornaliero di attacchi suicidi: ieri una serie di bombe hanno ucciso quattro persone. Sempre ieri 46 sunniti membri di una potente tribù della provincia di Anbar, tra le poche impegnate contro l’Isis, sono stati giustiziati dallo Stato Islamico nella città di Hit, caduta all’inizio di ottobre dopo la fuga dall’esercito regolare. Un altro punto a favore dei settarismi interni che indeboliscono Baghdad.