L’emozione non è affatto una virtù critica ma è difficile non provare una fitta alla sola evocazione del suo nome, Anne Frank, per noi tutti Anna com’era scritto sopra il titolo, Diario, nel volume di Einaudi (bianco e listato di rosso, collana «Letture per la scuola media») che nel 1966 mostrava in copertina la foto-tessera di una bimbetta dai capelli neri e dagli occhi cerchiati, lo sguardo vagamente insolente. Firmava la prefazione di quello che non era per noi un libro di culto ma proprio un libro sacro, in senso etimologico, e cioè di inviolabile e tenera bellezza, Natalia Ginzburg che così scolpiva il profilo di una scrivente (ma già potenzialmente una scrittrice) i cui tratti, ad apertura di pagina, rivelavano vivacità ma anche acume, ironia, nonché una libertà di sguardo e di giudizio impensabili in una quattordicenne del 1943: «Anna ha una intelligenza penetrante e precoce; un occhio critico a cui non sfugge nulla. Ha il dono dell’ironia, la facoltà di raccontare cogliendo le cose nella loro sostanza ed è la sola, lei, che cerchi di guardare oltre sé, che spinga il proprio pensiero fuori della monotona vicenda di speranza e paura: la sola che cerchi nella propria storia un significato universale». Non lo sapevamo, non ce ne rendevamo ancora conto, ma le pagine di Anna ci commuovevano per il loro elementare messaggio umanistico, come il frutto, scriveva la Ginzburg, di una «bontà coraggiosa che ha superato la morte».

Il Diario non poteva che apparire allora, ai suoi lettori, il nitido diagramma sia di una tenace formazione (l’essere lei reclusa nell’alloggio segreto e in uno spazio costipato, in balìa di un destino già segnato) sia di una ostinata e persino sfrontata volontà di sopravvivenza (l’essere lei cronista di una clandestinità in cui si mantiene il decorso della esistenza quotidiana, le incombenze del vivere in famiglia, le impellenze del corpo, i frangenti dell’amicizia e di un amore precoce, del tutto imprevisto). L’immagine di Anna era la stessa, intrepida, della giovinetta reclusa in Prinsengracht 263 (la casa alta e stretta sui canali di Amsterdam che oggi è il suo museo) poi arrestata con i familiari per una delazione, deportata ad Auschwitz nel settembre del ’44 e morta infine, quindicenne, con sua sorella Margot nel campo di Bergen-Belsen nel marzo del ’45 per una epidemia di tifo. Ai suoi lettori immediatamente postumi (l’edizione originale del Diario è del ’47, la prima italiana di sette anni dopo) non poteva interessare che il testo risultasse da una collazione effettuata, peraltro con amore ed estremo pudore, dall’unico scampato della sua famiglia allo sterminio, il padre Otto. Per il più crudele fra i paradossi, a porre il problema del testo pubblicato da Otto Frank a firma di Anna si sarebbe incaricata fra gli anni settanta e ottanta, alternando accuse di plagio e di falso, la immonda filologia dei cosiddetti revisionisti, in realtà negazionisti dichiarati quali, fra non pochi altri, gli immancabili Irving e Faurisson.

Promosso dalla Anne Frank Fonds di Basilea (l’ente istituito da Otto nel ’63 coi proventi letterari, teatrali e cinematografici della prima edizione del Diario), un lavoro pluridecennale porta finalmente alla edizione di Tutti gli scritti (con saggi di Gerhard Hirschfeld, Mirjam Pressler, Francine Prose, Einaudi, «Super ET», pp. 875, euro 28.00) che escono in italiano con la supervisione di Frediano Sessi. Notevole è l’apporto storico-documentario (lettere, foto) e il recupero di inediti e rari, non soltanto i già noti Racconti dell’alloggio segreto, nati in margine o per partenogenesi dalle pagine diaristiche, ma anche il Libro dei bei pensieri, zibaldone di estratti e citazioni di classici che rivelano in Anna una precoce curiosità intellettuale, e il Libro d’Egitto, un piccolo dizionario di mitologia residuo di una scolara che sappiamo, alle «Montessori» di Amsterdam, tutt’altro che diligente.

Decisamente più importante, tuttavia, è l’inclusione del palinsesto del Diario medesimo, in sé datato fra il 12 giugno ’42 e il 1° agosto ’44, ma scomponibile in quattro fasi redazionali, autografe e non: una prima stesura di getto da parte di Anna (codice a); una parziale rielaborazione del già scritto in vista di una partitura più strettamente letteraria e/o testimoniale da parte di Anna stessa prima dell’arresto (codice b); la collazione di a e b operata da Otto Frank per l’edizione 1947 (codice c), cioè quella che tutti una prima volta abbiamo letto; il testo a cura di Mirjam Pressler edito nel 1991 (codice d) che integra con una nuova collazione la princeps del ’47. Più di un dubbio a suo tempo sollevò l’edizione della Pressler se ad esempio Sergio Luzzatto (in Cara Kitty. Una fonte diaristica, nel collettivo Prima lezione di metodo storico, Laterza 2010) arrivò a parlare di documento «spurio e manipolato» nonché di «pasticcio editoriale» anche alla luce del fatto che esisteva dal 1986 una edizione critica, pubblicata da Einaudi nel 2002, dei Diari lì debitamente intitolati al plurale. Dunque appare opportuna, per quanto concerne Tutti gli scritti, la scelta di fornire il testo approntato dalla Pressler e comunque riconosciuto come definitivo dalla Anne Frank Fonds ma di produrre anche in edizione diplomatica, nell’appendice, le versioni autografe di a e b.

Sono problemi di filologia, importanti e spinosissimi, ma è difficile riescano a intaccare l’immagine di Anna che la prima generazione dei suoi lettori ha tradotto in senso comune, quella, appunto, della freschezza percettiva e cognitiva, dello sguardo pungente e insieme volatile, insomma di una vitalità che arde, brucia, ma nulla spreca della sua leggerezza, della sua costitutiva e inconsapevolmente eroica, mite, insolenza. Basta aprirne ancora una volta le pagine, e a caso, per esempio la lettera a Kitty del 31 marzo 1944: «Il morale generale è tornato alto per il fronte russo, che è fantastico. Non ti scrivo molto sulla politica, ma non posso fare a meno di comunicarti a che punto sono: sono vicinissimi al Governatorato generale e in Romania sono arrivati al Prut. Sono vicini a Odessa e Tarnopol è accerchiata. Qui ogni sera si aspetta un comunicato speciale di Stalin. A Mosca sparano talmente tanto a salve che la città trema ogni giorno, chissà, forse fingono che la guerra sia vicina o forse non conoscono un altro modo per dar sfogo alla loro felicità, non lo so proprio!».

Ecco, dire «Stalin» senza liberare alcuna enfasi e viceversa dire «Kitty» senza perdere nulla della propria cocciuta serietà. Forse il tocco inconfondibile di Anna, il suo mito incancellabile, è in questa forza tradotta all’istante in leggerezza, è nella tenerezza lievitante che, ora come allora, arriva al lettore e lo colpisce, lo commuove, senza mai prenderlo alla gola.

Se in uno dei suoi libri più belli, Lo scrittore fantasma (’79), Philip Roth se la immagina scampata al massacro, fuggita in America, come una donna dolce e sororale, un grande poeta italiano, davanti alla casa-museo in Prisengracht 263, le dedica alcuni fra i suoi versi più ispirati, Dall’Olanda: «Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale/ continuavo a cercarla senza trovarla più/ ritrovandola sempre». Quel fantasma, di continuo inseguito, è il pegno di una eredità, è l’eco della voce di Anne Frank, la nostra Anna.