«Volevo dire, scrivere riguardo a mio padre, alla sua vita, e a questa distanza che si è creata durante l’adolescenza tra lui e me. Una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome. Come dell’amore separato». Su quell’ipotesi di narrazione, Annie Ernaux ha riflettuto parecchio concludendo che le sarebbe stato impossibile riferirsi a una trama di invenzione. Ha dunque preferito una composizione in prima persona, veritiera e dichiaratamente autobiografica. La place (Gallimard), ora tradotto da Lorenzo Flabbi con il titolo Il posto (L’orma editore, pp. 120, euro 10) è un potente libro (già recensito da Enzo di Mauro in Alias del 30/3/2014) che per Ernaux rappresenta l’altra metà di una trama d’infanzia cominciata anni prima, e puntellata anche in seguito, interrogando la propria relazione con la madre.

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Siamo in un piccolo paesino nel nord della Francia. Con un senso di ascolto verso la vulnerabilità umana e, al contempo, consapevole del suo divenire donna desiderante, Ernaux sistema lo strappo definitivo della morte del padre e indaga lo iato che ogni scomparsa porta con sé. Distanza sgranata per la scrittrice in un senso preciso e materiale di classe. Per la figlia, invece, in un mescolamento del tempo di cui le sembra di smarrire la traccia. Contadino, operaio e infine gestore di un piccolo negozio, il profilo che Ernaux tratteggia di suo padre è fulminante, distillato come i ricordi elencati e aderenti all’esperienza. L’incedere della storia inchioda così a una inconfondibile e dolente parabola capace di consegnare il senso di un conflitto, in cui lo scambio singolare e privato compare nello sfondo di una materialità degli affetti e delle vite senza possibilità di sottrazione alcuna.

Ha scritto «Il posto» con una competenza disarmante sulla perdita, illuminata con attenzione attraverso lo spaesamento e il contesto sociale e storico entro cui succede di morire. Su cosa si è concentrata?

Quello che mi premeva fortemente era anzitutto dare conto del rituale che prendeva avvio dopo la scomparsa di un proprio caro perché era molto legato alla classe sociale di appartenenza, nel mio caso popolare. La forma della condivisione e dello stare insieme non avvenivano allo stesso modo nelle famiglie borghesi. Ci si potrebbe soffermare su diversi dettagli. Per esempio il pasto che segue l’inumazione, benché abbia delle radici molto antiche, si è mantenuto nelle classi popolari e si è abbandonato nelle classi borghesi.

Il libro si apre sul doppio registro di una fine e di un inizio. La prima è quella di un padre e il secondo è invece legato al concorso che in quegli stessi mesi le capita di superare per l’insegnamento. Successivamente a quel taglio, anticipato per fasi negli anni, che lei chiama «distanza di classe», scrive: «ora sono davvero una borghese, è troppo tardi» congiungendolo tuttavia ad un «rancore» verso il linguaggio paterno. In che senso?

La fonte del rancore, della rabbia, più che dalla mancanza dei soldi passava proprio per il linguaggio. In particolare capitava che mio padre utilizzasse il dialetto con delle forme grammaticali non corrette. Invece di Noi eravamo poteva dire Io eravamo. Come scrivo nel libro, io lo correggevo e per me era insopprimibile farlo perché l’avevo imparato a scuola. Così mi trovavo a vivere in una terra di mezzo, tra quello che avevo ereditato e ciò che invece imparavo a scuola. È stato motivo di grande frizione fra noi e anche di dolore. Non era una sostituzione di autorità tra ciò che fin lì avevo conosciuto e ciò che la scuola mi offriva, piuttosto una legittimazione inedita, una scoperta che ha causato smarrimento ma anche libertà. Forse è ciò che accade a tutti i transfuga da un punto di vista sociale, o forse sarebbe meglio dire a tutti i trans-classe, quest’ultimo un concetto più neutrale che non ha l’accezione del tradimento ma proprio del passaggio inteso come lacerazione.

In questo suo libro, a differenza di altri suoi, la relazione con sua madre appare poco ma in modo appropriato legata alla lingua e alla comprensione che le ha mostrato del suo percorso. Cosa ha significato sua madre nella sua formazione?

La figura di mia madre è stata certamente la più importante di tutte nella mia formazione. Nell’economia della coppia erano le sue scelte quelle che venivano approvate e applicate. Del resto, mia madre come donna è sempre stata presente sia nei miei libri che nella mia stessa idea del divenire donna. Non posso pensare alla mia famiglia come patriarcale proprio grazie al rilievo che la posizione di mia madre ha assunto. Una forza, un entusiasmo e un orgoglio che ancora mi accompagnano. Penso al libro che ho scritto subito dopo la sua morte, Une femme (Gallimard, 1988, in italiano Una vita di donna, Guanda, 1988), e poi a quello che precede Il posto, La Femme gelée, (Gallimard, 1981). Qui descrivo quanto mia madre mi abbia sostenuta e quanto sia stata felice per me quando le ho confidato la mia intenzione di cominciare a scrivere. Da parte di mio padre c’era invece paura e al contempo desiderio che io non ottenessi buoni risultati scolastici. O almeno che io avessi qualche defaillance perché lui, in realtà, il passaggio sociale che io stavo compiendo non lo desiderava.

Anche questo fa parte della frattura di classe di cui lei parla? C’è forse stato da parte sua un senso di colpa, seppure ambivalente?

Proprio così, un senso di colpa ambivalente. Forse, mi dico, ne fossi stata del tutto priva non avrei scritto Il posto. In generale, scrivo proprio a partire dalla segnalazione di quella frattura di classe. Perché la mia è una scrittura politica e ogni mio libro è il modo che ho trovato per darmi la libertà di parola con una voce che racconti la politica che mi interessa.

Lei parla della sua scrittura anche come «epica del sé». In Italia è stato recentemente pubblicato il volume collettaneo «Epiche» (Iacobelli, a cura di Paola Bono e Bia Sarasini, «il manifesto» del 28 agosto) in cui, tra le altre cose, compare una differenza tra eroine ed epiche ed è aperto da una domanda che vorrei rivolgerle: esiste un’epica femminile?

In Francia una questione simile non è ancora stata posta. Sarebbe interessante passare in rassegna la storia della letteratura ma dal mio punto di avvistamento, di cui il lavoro di scrittura fa parte, il mio Les années (Gallimard) corrisponde per esempio a questo discorso. Mi viene anche in mente Nathalie Kuperman e il suo J’ai renvoyé Marta (Gallimard) che sarà presto tradotto in italiano. C’è anche in questo caso l’attraversamento della storia da parte di una donna, che mette al centro l’epica del quotidiano e delle condizioni materiali di esistenza e non è ascrivibile a una classificazione tradizionale. In effetti non si tratta di eroine canonicamente intese ma di storie di donne che potrebbero confermare l’esistenza di un’epica femminile.