In nome di una sorta di «riduzionismo adattivo-cerebrale» non è raro osservare neurologi che indicano alla lavagna il punto del cervello nel quale avrebbe sede il giudizio estetico, o psicologi consacrati alle ceneri di Darwin insistere sul presunto valore adattivo all’ambiente delle tossicomanie, del suicidio o di un bel film di zombie. Per fortuna, tutto ciò fa parte di uno scenario scientifico-filosofico molto più ampio.

L’ultimo libro del neuroscienziato Vittorio Gallese e del teorico del cinema Michele Guerra, Lo schermo empatico Cinema e neuroscienze (Raffaello Cortina, pp. 318, euro 25,00) rappresenta il felice esempio di una ricerca trasversale in grado di contribuire a una teoria della natura umana all’altezza dei tempi. Accostare due campi di ricerca così diversi, studio del cervello e teoria della settima arte, è impresa rischiosa. Il pericolo è un mélange allusivo nel quale procedere per giustapposizioni; e dietro l’angolo c’è l’insidia di ridurre l’esperienza cinematografica alle sequenze di attivazione di aree cerebrali: una via di fuga teorica eclatante e, contemporaneamente, sterile.

Il libro evita con rigore entrambe le derive, navigando tra la Scilla della giustapposizione evocativa e la Cariddi del riduzionismo neuronale. In aperta polemica sia con l’analogia mente-computer di ispirazione cognitivista che con un’idea del cinema fatta solo di analisi semiotica, i due autori propongono una «estetica sperimentale», dove il sostantivo «estetica» indica il segnavia teorico: prima di concepire il cinema come narrazione, occorre considerarlo come la più attuale delle forme di «aisthesis», cioè dell’esperienza sensibile.

L’aggettivo «sperimentale» precisa il metodo: questa forma di esperienza è analizzata per mezzo di una indagine sulle dinamiche corporee e neuronali di chi gode guardando un film, senza per questo sposare il feticcio della localizzazione cerebrale. Dal punto di vista neuroscientifico, lo sfondo di partenza del libro è rappresentato dalla solida base empirica legata alla scoperta, compiuta da Gallese e Rizzolatti negli anni novanta, dei cosiddetti «neuroni specchio», neuroni intrinsecamente sociali poiché si attivano non solo quando, ad esempio, muovo una mano ma anche quando guardo qualcun altro compiere quello stesso movimento. In altre parole, i neuroni specchio sono la base neurofisiologica dell’empatia. Si tratta di neuroni multimodali che scavalcano l’attribuzione a una singola sfera sensoriale. Vedere un gesto con gli occhi, ad esempio, attiva anche aree coinvolte nella sua realizzazione tattile. Questa concezione del cervello umano come organo sociale e sinestetico incontra il cinema allo scopo di svolgere un lavoro a doppio senso di marcia. Per un verso offre alla settima arte il gancio materialista costituito dai neuroni specchio; per un altro trae dal cinema linfa vitale al fine di costruire un’antropologia prensile e sufficientemente articolata.

L’indagine è ampia, va da Buster Keaton a Stanley Kubrik, e punta a un ribaltamento. Se, a un primo sguardo, il cinema appare come la più statica e visiva delle forme espressive, i due autori organizzano una staffetta in grado di rovesciare il punto di vista. Neuroni specchio e cinema sono legati entrambi all’azione. Per un verso, ad attivare i primi è un programma motorio comune a chi vede il gesto e a chi lo compie. E d’altronde, l’azione è carne e ossa di ogni film. Proprio lungo i quattro movimenti di fondo del cinema (dei soggetti inquadrati, del montaggio, dello zoom e della videocamera nel suo complesso) Lo schermo empatico trova la sua articolazione interna. Il confronto dell’attivazione neuronale provocata da una stessa scena ripresa mediante tecniche diverse fornisce la dimostrazione sperimentale di una sensazione comune a molti spettatori e registi: che una delle forme video più coinvolgenti sia offerta dalla Steadicam, il dispositivo indossato dall’operatore in grado di registrare immagini in movimento che non risentano di alcuna oscillazione.
A conferma dell’equazione «più movimento, più empatia», l’apparecchio produce immagini che attivano più intensamente i neuroni specchio rispetto alla macchina fissa, su rotaia o zoom. Contemporaneamente, il carattere tattile della visione cinematografica, oggetto di registi d’avanguardia come Jan Švankmajer, ma anche di Blockbuster come Toy Story, cessa di essere una semplice allusione metaforica del critico ispirato. Lo studio delle aree cerebrali tradizionalmente assegnate in modo esclusivo a singole modalità di senso mostra che vedere sullo schermo cinematografico una mano attiva anche porzioni tattili e non solo aree visive nel cervello dello spettatore.

Naturalmente, un testo tanto spregiudicato non può che lasciare sul tavolo diversi interrogativi. Il libro si conclude domandandosi quale sia il futuro della sala cinematografica nell’era dei laptop, smartphone o action camera montate sulla bici. Ma anche alcune questioni circa il ruolo da attribuire al linguaggio verbale e al tatto vengono lasciate aperte. Le nostre parole, si dice nel libro con chiarezza, sono responsabili di quella che gli autori chiamano «simulazione liberata», vale a dire la capacità di costruire mondi possibili che prescindano dai vincoli senso-motori dei neuroni specchio. Con lo scorrere delle pagine, però, quell’immaginazione linguistica tanto decisiva per l’esperienza cinematografica sembra risentire di un processo, lento ma inesorabile, di ridimensionamento. Nelle pagine finali si concede spazio all’ipotesi che le nuove tecnologie digitali possano farci accedere a «una nuova visualità non linguistica», all’interno di «un’era aptica» nella quale finalmente il tatto umano troverebbe cittadinanza.

L’impressione è che il libro registri un’ambivalenza circa il tatto e il linguaggio: la parola chiave è «digitale». Com’è noto, l’etimo del termine richiama l’estremità manuale delle dita (il latino digitus). Ma un mondo nel quale toccare significhi sfiorare uno schermo o risuonare, per il tramite dei neuroni specchio, ad azioni riprese da un mezzo visivo non sembra in grado di indebolire i tabù culturali che fanno del «vietato toccare» un diktat valido tanto al mercato quanto in un museo. Il digitale non corrisponde al tattile in quanto tale, bensì al tattile organizzato da un formato numerico-discreto, che è il prodotto più raffinato dell’industria culturale odierna. Come tale appare insufficiente per aprire una nuova era sensoriale finalmente libera dagli stereotipi occidentali.
Per un altro verso, niente è più linguistico del digitale. Si tratta di un mezzo rappresentativo nitido ma non puramente visivo poiché nasce da macchine alle cui spalle ci sono le parole del calcolo e i linguaggi della programmazione. L’impurità del digitale, si badi, è il suo profilo migliore. Del cinema, del digitale e del corpo che risuona prendiamo tutto. Proprio per questo occorre non cedere alla tentazione di far rientrare dalla finestra (I-Pad o Tablet che sia) quel che nel secolo scorso era finalmente uscito dalla porta, vale a dire l’aura dell’opera d’arte fatta di anime vibranti e spirito dell’indicibile.