Spirito impuro, versato al mélange delle forme e delle opzioni stilistiche, al mascheramento ‘ideologico’ reiterato, a fronte di un disperato bisogno di assolutezza moderna, Guillaume Apollinaire si presenta, come critico d’arte e primo interprete del cubismo, nelle vesti incerte dello scopritore di terre nuove, manchevole di strumenti adeguati. Insieme a Marinetti, ma con ben altra sottigliezza e senso della qualità, fu, detto in sigla, l’inventore della militanza culturale, esercitata con una bramosia dello starci e dell’inseguire che sopravanza abbastanza stesso i criteri di giudizio, dal che aporie, contraddizioni, sbilanciamenti. Rodomontico come il suo amico Jarry e insieme serio e impegnato a dare contorni teorici all’esplosione procurata da Picasso e da Braque (o da Braque e Picasso), Apollinaire è adesso oggetto di una meravigliosa mostra al Musée de l’Orangerie – Apollinaire Le regard du poète, ancora aperta fino al 18 luglio, catalogo Gallimard – che procura, fino al possibile, di lasciare ‘libera’ la sua poetica, come in un tavolo di lavoro ancora ingombro di ipotesi e suggerimenti, e di colpi di fantasia. Il poeta di Alcools non può che soffrire dall’essere sistemato e orientato, ma vibra e risuona nel rispetto delle sue generose incertezze, del suo coinvolgimento integrale nella contingenza storica, dal quale del resto, in prospettiva, facilmente vediamo profilarsi le linee-forza di gran parte dell’arte a venire.

A la fin tu es las de ce monde ancien: il mondo antico più immediato, per Apollinaire, è quel carico di romanticismo e simbolismo di cui deve liberarsi come poeta ma che, più facilmente, può spianare nelle vesti di sodale di Picasso. Si erano conosciuti nel gennaio del 1905, due anni e mezzo prima delle Demoiselles, e la mostra dal ’5 proprio prende l’avvio, con il bronzo dell’Arlequin di Picasso, nella prova realizzata per Vollard: la figura di Arlecchino, ricordiamolo, aveva siglato da subito la loro amicizia, figura ossessionante per Picasso, da Apollinaire battezzato «Arlecchino Trismegisto». L’altro la della mostra è la scultura africana con il celebre Nkisi Nkondi congolese appartenuto ad Apollinaire e spiccante nel magico bric-a-brac dell’appartamentino di boulevard Saint-Germain.

Folgorazione africana

Eccoci, con il feticcio di legno, subito proiettati nel cuore del problema: è proprio intorno alla nuova idea di realtà determinata, insieme alle meditazioni su Cézanne, dalla folgorazione della scultura africana che prende le mosse il Picasso cubista, con dietro Apollinaire, subito pronto ad affermare l’opzione anti-sensoriale e anti-impressionista che porterà ad abbattere l’illusionismo e le sue chimere a favore del tableau-objet, l’opera d’arte autonoma. È lo snodo cruciale, su cui Apollinaire si spenderà teoricamente più che su tutto il resto: la realtà non può essere restituita che concettualmente; la scultura africana, priva di verosimiglianza, tutta concentrata sul rapporto organico tra le parti, indica la strada, e Picasso, studiandosi di ‘girare’ intorno all’oggetto e di mostrarne insieme le diverse facce, ne trae le conseguenze, allo stesso modo di Braque, preoccupato specialmente di plasticizzare il vuoto. Ma gli argomenti di Apollinaire non hanno il carattere di necessità, la stringente coerenza che ci si aspetterebbe, e quasi balbettano dinanzi all’acuta penetrazione dei processi formali di un Allard, un Raynal, soprattutto di un Jacques Rivière, i migliori critici cubisti della prima ora. Quella di Apollinaire è, secondo la formula di Cocteau, «critica lirica», critica intessuta di ideali e di sogni, ma è proprio in quanto tale che riesce a traghettare l’interesse generale e a stabilire connessioni paraboliche fra i vagiti dell’arte nuova e l’affermarsi filosofico di un nuovo principio ordinatore che mette in questione radicalmente la realtà ‘positiva’, la realtà delle apparenze.

Il sublime eclettismo di Apollinaire è perfettamente rappresentato dalla mostra, soprattutto là dove mette in scena, convocando le opere giuste, la teoria degli artisti che egli selezionò per il libretto aureo Les peintres cubistes, sottotitolo Méditations esthétiques, pubblicato nel 1913. Cécile Debray, in uno dei saggi in catalogo, ricostruisce con chiarezza l’accidentato percorso che portò alla composizione del celebre saggio, sette capitoli «sulla pittura» in generale e nove piccole monografie sui «pittori nuovi» (però nella pancia di quella su Marie Laurencin ce n’è un’altra sul papà dei cubisti Henri Rousseau), più, in appendice, lo scritto su Raymond Duchamp-Villon, unico scultore presente. Si tratta di un montaggio di brani stesi in tempi diversi: solo quelli dedicati ai cubisti del secondo momento – Metzinger, Gleizes, Gris, Léger, Picabia, Duchamp e, appunto, il fratello maggiore di questi Duchamp-Villon – furono realizzati per l’occasione del libro, nel 1912. Proprio nell’ottobre del ’12, infatti, questi artisti si erano ritrovati, e definitivamente riconosciuti sotto il segno di un approccio più «scientifico» alle scoperte di Picasso e di Braque, nella mostra della Section d’Or, titolo leonardesco (il Trattato sulla Pittura era stato tradotto in Francia nel 1910) suggerito da Jacques Villon. Apollinaire abbraccia la loro causa, dopo un contrastato cammino di avvicinamento, segnato dalla presenza ingombrante di Picasso, il quale, non esponendo, ha tenuto segrete le sue ricerche, e che giudica male, come superficialmente derivata, questo tipo di arte. Ma è un fatto che sono proprio gli artisti in questione, e in particolare Metzinger (il quale, sempre nel ’12, firmava insieme a Gleizes il primo organico tentativo di sistemazione teorica dell’arte nuova, Du Cubisme) a dare un volto pubblico, appunto, al cubismo. Con tutti gli equivoci connessi – nei quali è pienamente e allegramente coinvolto Apollinaire –, perché è evidente la distanza che separa la rivoluzione plastica di Picasso e Braque, dove l’opera si presenta come un vero e proprio atto di coscienza che subordina il reale alle sue esigenze espressive, dalle soluzioni intermedie dei nuovi arrivati, per i quali la natura risulta, piuttosto, un archivio di immagini da purificare e poi aggregare in piani frammentati. Qui non si tratta di accademia cubista, che è un fenomeno anni venti, ma di un’arte «incompiuta», che si trascina dietro, non senza punte di incanto, determinati precedenti, come Seurat e l’Art Nouveau: ne sono prova, in mostra, le due grandi tele di Metzinger e Gleizes, rispettivamente L’Oiseau bleu e Les Jouers de football, che furono esposte al Salon des Independant del 1913 e commentate da Apollinaire nella rivista «Montjoie!». Un altro e più personale maestro di questo simil-cubismo è Roger de la Fresnaye, non compreso nei Peintres Cubistes, ma amato da Apollinaire per il suo «grande sforzo verso il colore puro», testimoniato da La Conquête de l’air del 1913, giunto a Parigi dal MoMa.

Delaunay, le finestre

Il colore puro nei suoi traffici con la luce e in vista dell’astrazione è un altro motivo dominante delle avventurose esplorazioni del poeta dei Calligrammes, che, in questo senso, punta tutte le sue carte su Robert Delaunay, di cui si può vedere in mostra una delle tele della serie Fenêtres (La fenêtre s’ouvre comme une orange / Le beau fruit de la lumière) esposte nel 1913 alla galleria berlinese Der Sturm. In quest’occasione Apollinaire afferma che due gli sembrano le più importanti tendenze dell’arte moderna, da una parte il cubismo di Picasso (dunque svaluta implicitamente il cubismo di tutti gli altri, che aveva di recente accreditato), dall’altra l’orfismo (così lo battezza) di Delaunay, cioè a dire un’arte ‘musicale’ luce-colore fondata sulla simultaneità, ordinata a griglia, dei punti di osservazione e sulla sfaccettamento cristalliforme del campo visivo. Il caso di Delaunay, pittore senza preoccupazioni plastiche e legato a un ordine di problemi che rimontano in parte alla sua formazione neo-impressionista, indica come meglio non si potrebbe il proteismo di Apollinaire, il suo bisogno esistenziale di stare e combattere ovunque albeggi qualcosa di nuovo, e insieme il suo genio nell’intuirlo, il nuovo, in tutta potenzialità.

Questa urgenza culturale non è estranea a un modo di giudicare troppo inclusivo, che giustifica l’improbabilità teorica della celebre partizione da lui congegnata dell’universo cubista. Quattro i cubismi: scientifico, fisico, orfico, istintivo, il primo e il terzo sono «puri», e il primo comprenderebbe, accanto a Picasso, Braque, Metzinger, Gleizes e Gris, la pittura snervata di Marie Laurencin… Con la rete a maglie larghe delle sue fantasie militanti Apollinaire pescò diversi equivoci, come quelli che costellano il suo ambivalente o ambiguo rapporto con Marinetti e i futuristi, di cui resta documento l’elenco di nomi del manifesto-sintesi Antitradition futuriste, da lui firmato il 29 giugno 1913, che avrebbe dovuto fotografare, a quella data, lo stato dell’avanguardia. La semplice verità resta che Apollinaire aveva idee profondamente parigine, e tentò, per non perdere il treno di un fenomeno rimbombante, di conciliare cubismo e futurismo, cioè, oltre un certo segno, l’inconciliabile. L’appuntamento all’Orangerie, che non si risparmia nel rendere conto del mondo sventagliato di Apollinaire – dal gusto per certa figuratività baraccona condiviso con Jarry e Max Jacob all’adesione più o meno camaleontica a poetiche altre rispetto al cubismo (Matisse, de Chirico, Chagall), dal mito del Doganiere, fra candore e atrocità, all’esperimento teatrale già surrealista Les Mamelles de Tirésias – giustamente ‘frena’ circa il suo rapporto con il futurismo.

L’opzione più avanzata di Apollinaire è quella a favore di Duchamp e Picabia, artisti usciti anch’essi dal seno delle problematiche cubiste, ma già passate al vaglio delle speculazioni matematico-platoniche del circolo di Puteaux, dov’era situato lo storico studio di Villon. Di Duchamp e Picabia, ben rappresentati in mostra, Apollinaire avverte subito la natura diversa, il vitalismo mentale e la carica eversiva, che li porteranno a rovesciare il tableau-objet nell’objet-tableau. A proposito dell’energia ‘socializzante’ di Duchamp, con colpo di teatro conoscitivo egli paragona la celebre processione medioevale dietro la tavola di Cimabue con quella che aveva portato in trionfo agli Arts-et-Métiers l’aeroplano di Blériot.

Ma dentro ognuna delle maschere figurative di Apollinaire si nasconde, sembra, un’unica fedeltà ‘generatrice’, l’arte di Picasso, di cui il poeta, sopravvissuto alla trapanazione del cranio e morto nel 1918 di febbre spagnola ad appena trentotto anni, poté seguire l’evoluzione fino alla svolta neoclassica. E con un capolavoro di questa svolta, dipinto nel ’21, si conclude la mostra dell’Orangerie. Due giganti amici, giovani di snodature sode, l’uno circuendo la spalla dell’altro, leggono insieme una lettera: l’intimità di Picasso e Apollinaire.