Come è potuto accadere che una vicenda tragica e dolorosa, e tuttavia lineare come quella della morte di Giulio Regeni, sia diventata oggetto di tanti cattivi pensieri e di una così torva e maligna ostilità?

Alcuni articoli, pubblicati negli ultimi giorni in Italia e altrove, sono costruiti in maniera tale che una delle componenti più oscure della operazione – gli apparati dei servizi segreti – proietti un’ombra negativa sulla prima vittima di tutto ciò. Lo stesso Giulio Regeni, cioè. Il che ha costretto i suoi genitori a dover smentire una supposta appartenenza del giovane a servizi di intelligence. Vi rendete conto?

Ma tutto ciò è in qualche modo fatale, perché gli ambienti dov’è maturato quel crimine sono segnati dall’illegalità, propria degli apparati politico-militari, direttamente o indirettamente collegati al regime, che sono stati i più probabili autori dell’omicidio. Ma è come se quell’ombra di cui dicevo accompagnasse tutta la vicenda, gli attori, i comprimari e gli osservatori, confondendo ruoli e responsabilità e intorbidendo il clima e lo scenario.

Così è accaduto che, sin dalle ore immediatamente successive all’identificazione del corpo di Regeni, il quotidiano il manifesto venisse tirato in ballo in maniera davvero pretestuosa, diventando a sua volta oggetto di quei «cattivi pensieri» di cui all’inizio di questo articolo.

Le ordinarie e ben note difficoltà del rapporto politico e professionale tra un giornale militante, i suoi contatti e i suoi collaboratori sono diventate materia di una speculazione tanto gratuita quanto triviale.

La ritardata pubblicazione dell’articolo di Regeni, poi un’incomprensione con i suoi genitori – solo spiegabile con la concitazione di quelle ore drammatiche – e più in generale la complessità delle relazioni con società attraversate da lacerazioni crudeli e con chi ne è testimone e osservatore: tutto questo ha determinato sul web una inaudita aggressività nei confronti del manifesto.

Fino a mettere in discussione, dopo la sua morte ormai definitivamente accertata, la stessa legittimità a pubblicarne l’articolo.

La vicenda, infatti, oltre allo sgomento di tantissimi, ha suscitato in alcuni reazioni ingiustificate e di una veemenza tale da far sorgere il dubbio che non siano state le scelte editoriali dei giorni scorsi a determinare tanta asprezza: ma che altri sentimenti siano stati sollecitati e abbiano trovato spazio insinuandosi nelle pieghe di una situazione delicatissima.

Per definizione, sul web c’è tutto e il contrario di tutto: dovremmo essere capaci di assumere la giusta distanza per evitare di precipitarci dentro con tutte le scarpe.

Il web è la sede di cose magnifiche e di cose truci. E ci sono due circostanze capaci di incentivare ed eccitare queste ultime.

La prima circostanza è rappresentata dalla figura della vittima: a quella che può apparire come una sua mitizzazione si accompagna, quasi immediatamente, una procedura di denigrazione. È come se il web non sopportasse un eccesso di virtù e si sentisse obbligato a sfregiare quell’immagine presentata come «troppo pura».

La seconda circostanza, così intimamente correlata alla prima, richiama una sorta di frustrazione diffusa e di volontà di rivalsa verso quanti appaiono titolari di un patrimonio di prestigio e autorevolezza, ancor più se di spessore politico e di natura intellettuale. È il caso de il manifesto.

Questo giornale, da quasi mezzo secolo, rappresenta un presidio di intelligenza e di competenza giornalistica, retta da una costante curiosità nei confronti delle persone e del mondo e di una tenacia davvero esemplare nel volerli raccontare e interpretare. Come tutti, quel collettivo di giornalisti può commettere errori, anche gravi, e vivere contraddizioni e involuzioni. E io, che non mi dichiaro «comunista», come recita il sottotitolo di questa testata, non condivido molte opzioni, analisi, scelte.

Ma mai in questi quasi cinquant’anni ho dubitato della sua buonafede.

Dunque, perché circola sul web tanta acredine nei confronti di questo giornale?

Una mia idea ce l’ho: perché il web – azzerando tutte le posizioni, le soggettività, le competenze e le esperienze – esalta la volontà di rivalsa, fatta di rancori i più diversi e di mille umori che cercano libero sfogo. Chiunque, di conseguenza, può aspirare al ruolo di analista internazionale «più bravo di quelli del manifesto», e di denunciatore di complotti «più intransigente ancora», di giudice «dalla schiena dritta» della virtù altrui e di censore «senza se e senza ma» della morale di singoli e gruppi.

Ad aspirare a questo ruolo sono, in genere, persone la cui attività e le cui energie si esauriscono in un click o in un like. Ma la cui vanità viene esaltata dalla sensazione inebriante di poter sprezzare tutto e tutti.