Giuseppe Scandurra con il suo libro Tifo estremo (manifestolibri, pp.191, euro 20) racconta un mondo complesso, contradditorio, frammentato, e comunque di difficile interpretazione perché «è un mondo a sé stante, dotato di proprie regole» che sovvertono i tradizionali canoni interpretativi. Oggetto della sua ricerca, effettuata tra il 2012 e il 2015, sono le pratiche di vita, le storie, i punti di vista dei gruppi ultras del Bologna calcio. Il suo è un vero e proprio viaggio da etnologo che attraversa con passione e curiosità le culture della curva Andrea Costa dello stadio Dall’Ara. E lo fa con bravura e senza mai tranciare facili giudizi: segue gli ultras allo stadio, in trasferta, nei loro club, li intervista e soprattutto conquista la loro fiducia: riesce a farli parlare davanti a lui che, all’interno di quel mondo, è considerato un estraneo.

Un libro, dunque, utile per far conoscere, attraverso una serrata ricerca sul campo, il senso di comportamenti, gesti, linguaggi che il più delle volte ricevono invece da alcune frange di intellettuali e di giornalisti il disprezzo, l’invettiva e l’indignazione. L’ultras teppista, fuorilegge e sempre pronto alla ribellione senza scopo è una figura che fa parte ormai della violenza dei luoghi comuni e della ipocrisia che attraversa periodicamente pagine e pagine dei quotidiani nazionali e i discorsi dei giornalisti sportivi televisivi. (Per inciso: le telecronache delle Olimpiadi brasiliane sono state, tranne che in rarissimi casi, un banco di prova insuperabile per verificare il livello di ovvietà e di povertà raggiunto in questo settore dal linguaggio giornalistico televisivo).

Ma ritorniamo a Bologna e ai suoi ultras e seguiamo Scandurra su tre punti della sua ricerca: la curva, la violenza, la repressione.

Il territorio della curva

Gli ultras sono resi possibili da una fede che non ammette dubbi verso la propria squadra, che è insieme realtà storica ed entità metafisica in quanto rappresenta la tradizione e la memoria di tutto il popolo dei tifosi, «forma gloriosa» che è all’origine ed eccede qualsiasi contingenza. È proprio questa eccedenza simbolica che li nomina a perimetrare il territorio della «curva» come territorio della loro appartenenza nel quale non sono ammessi estranei: «il possesso dello stadio da parte delle curve – scrive Scandurra – rappresenta anche un modo, in un’epoca che sembra aver sancito la fine dell’equazione identità/territorio per riaffermare che, almeno per quote non secondarie di popolazione, sentirsi interni a una realtà materiale, con tutte le ricadute in termini di legami sociali questo comporti, continui a rivestire un’importanza fondamentale».

Qui è lo spazio a modellare i rapporti sociali, a organizzare gerarchie e comportamenti, a delimitare nettamente i contorni tra chi è dentro e chi è fuori, tra noi e loro. E soprattutto a indicare chi è il nemico. Perché, negli ultimi anni, è proprio questa indicazione, che sottrae ogni significato alla tradizionale contrapposizione politica tra rossi e neri, a ricompattare, come afferma Scandurra, tutte le galassie del movimento ultras dentro e fuori Bologna.

Nel momento del conflitto contro la polizia, infatti, le divisioni storiche tra le diverse tifoserie scompaiono perché questo nemico diventa unico per tutte. Ed è questa contrapposizione violenta con la polizia a mettere in secondo piano oggi anche quella tra tifoserie di appartenenze diverse. D’altra parte, è nella tradizione italiana politicizzare il conflitto, trasformare una cultura conflittuale in movimento antagonista e su questo terreno far nascere uno scontro sociale tra fazioni e istituzioni.

I nemici in divisa

La contrapposizione fisica con la polizia, la stessa irregolarità delle forme di lotta sono sempre e solo dentro un’insofferenza verso ogni forma di controllo e di limitazione dello spazio dell’agire (dalla censura sugli striscioni a quella sui cori, dal divieto di far entrare strumenti musicali negli stadi alla tessera del tifoso, dalle impronte digitali alle fotografie segnaletiche al Daspo, manca solo l’esame del sangue).

Non a caso, a differenza degli hooligan inglesi, come ricorda più volte l’autore, che non hanno mai messo in discussione il potere della polizia, uno degli obiettivi degli ultras è invece quello di delegittimarlo e proprio nel modo più intollerabile per qualsiasi autorità costituita: non permetterle l’agibilità di uno spazio (quello della curva o quello del territorio adiacente alla stadio). «È impossibile – scrive Scandurra – analizzare le azioni violente che hanno avuto come protagonisti gli ultras bolognesi se non mettendole in relazioni con le leggi, le normative e le ordinanze che hanno governato il contesto stadio dagli anni Settanta a oggi».

Ma c’è un’altra considerazione da fare. Dentro la violenza degli ultras, che esplode sul territorio e quasi mai negli stadi, perché all’origine della loro cultura c’è la strada con i suoi linguaggi e i suoi riti in cui l’appartenenza territoriale costituisce il fondamento, non c’è solo passione di parte, non c’è solo il confronto con l’avversario di turno, c’è anche tanta rabbia sociale e antistituzionale. Non a caso gli ultras, che sono una delle poche forme organizzative di opposizione sociale rimaste sul territorio, le ritroviamo alla testa delle rivolte sociali degli ultimi anni. E non solo in Italia.

Ma l’istituzione a cui contrapporsi non è solo lo Stato, sono anche le società di calcio. La fede e la passione non sono oggetto di scambio, vanno oltre il pensiero economico che segna questa epoca. Gli ultras sono così l’unica e vera forma di critica «alla crescente confezione del gioco come spettacolo e divertimento» e soprattutto alla commercializzazione del calcio promossa dalle società sportive, ma aggiungerei una forma di critica all’intero sistema di mercato che vuole tutto omogeneizzare, deterritorializzare o blindare.