Il 20 giugno scorso Torino ha visto quella che Émile Zola definisce «la brutale allegria delle serate che seguono una carneficina». Il popolo di Chiara Appendino, trionfante in un ballottaggio sanguinoso per il Pd, si trovava sotto il palazzo del comune con la spontaneità della folla che esplode dopo che l’infinito tempo dell’amarezza, improvvisamente, termina.

Scontata la premessa: cento giorni non sono sufficienti per tracciare alcun giudizio sull’operato della sindaca, anche perché la pesante eredità finanziaria, tre miliardi di debiti, è l’argine maestro che contiene e raddrizza ogni sogno. La campagna elettorale dava già idea del solco entro il quale voleva muoversi Chiara Appendino. Svestiti i panni di Giovanna d’Arco a lei attribuiti dall’ex sindaco durante epiche litigate in consiglio comunale, la neo sindaca indossava il vestito necessario per ottenere l’indispensabile consenso della borghesia torinese.

Addio polemiche, meglio una campagna elettorale di classe, centrata sulle periferie disastrate, sui centomila poveri che vivono in città. Bagni di folla – che per altro continuano grazie alla campagna elettorale permanente – nei mercati rionali certificavano che non sarebbe stata una vittoria quella del M5s, sarebbe stato un trionfo.

Il moderatismo pre-elettorale si è trasformato in un solido pragmatismo che la città ha già attraversato, e gradito, durante il regno di Sergio Chiamparino. Con cui Chiara Appendino ha stretto una solida collaborazione «istituzionale».
Il «Sistema Torino», locuzione divenuta famosa in Italia al di là di ogni previsione, dopo un primo momento di inelegante terrore, ha scoperto che con il nuovo potere si riusciva a parlare.

Anche perché dopo gli annunci – «Mi auguro le dimissioni di Profumo e Peveraro» – verso i vertici della Compagnia di san Paolo e di Iren, è mancata la pressione politica che molti si aspettavano.

Rivoluzioni mancate per ragioni tecniche e politiche: verso Intesa Sanpaolo pende un miliardo di debiti, e la fondazione bancaria primo azionista ha in mano la cassa dello stato sociale torinese, con Iren ci sono conti in sospeso per quasi 200 milioni.

Non mancano le decisioni scomode della nuova giunta, che boccia varianti urbanistiche in successione, in particolare sulla trasformazione del «Palazzo di lavoro» dell’architetto Nervi, da tempo abbandonato, nell’ennesimo Paradiso delle signore. Nel cassetto dei ricordi finisce anche un cantiere importante, il tunnel di corso Grosseto.

Rimane scandito il no al Tav, anche se l’uscita dall’Osservatorio latita, e presso il ministero delle infrastrutture interseca con i finanziamenti per la nuova linea metropolitana, anch’essa ovviamente priva di fondi. L’Osservatorio viene però sfrattato dagli uffici della città metropolitana con plateale gesto di avversione.

Il sistema Torino – si perdoni l’abuso di tale locuzione ma a Torino negli ultimi tre anni si è parlato solo di questo – scopre che i cinque stelle non sono i Visigoti. Enrico Salza: «Il sistema Torino può rilanciarsi con Chiara». Gli Elkann incassano l’assenza di polemiche quando annunciano la dipartita fiscale della Fca verso languidi paradisi (fiscali) olandesi.

E sul giornale di famiglia le cannonate pre-elettorali si trasformano in lodi: la Fiat è filo-governativa a prescindere. Licia Mattioli, presidente Unione industriali, a fine agosto si sbilancia: «Le esagerazioni della campagna elettorale sono state messe da parte e prevale un atteggiamento pragmatico. Nulla è stato bloccato». Sul Corsera del 22 agosto si poteva leggere: «Il favore con il quale la-città-che-conta guarda al nuovo sindaco è così ampio che persino una persona prudentissima come Gabriele Galateri, seppur in privato, spende parole di speranza».

E secondo un recente sondaggio pubblicato su La Stampa la neo sindaca sarebbe apprezzata anche dalla città che non conta: ben il 65% dei torinesi risulta soddisfatto. E pensare che otto mesi fa Piero Fassino era il quarto più amato d’Italia, con il 60% di consensi. Sic transit gloria mundi.

C’è chi si rallegra, e chi si indigna. Il «Comitato acqua pubblica di Torino» ha visto materializzarsi il granitico «No» dei cinque stelle che tutti temevano. Dopo anni di lavoro in comune, la strada del Comitato, che rivendica l’attuazione del risultato referendario del 2011, e quella del M5s a Torino si sono divise.

La maggioranza ha bocciato la trasformazione di Smat s.p.a. (azienda dell’acqua) in un’azienda speciale di diritto pubblico. La rottura, dopo la lunga collaborazione durata fino alla sera del voto, è stata fragorosa; anche perché altre amministrazioni 5 stelle hanno già adottato provvedimenti simili.

Intanto si concretizza la fine del Salone del libro. Milano avrebbe scippato l’organizzazione del grande evento con metodi arroganti; una incontrovertibile verità, che nell’immaginario torinese offusca la vera ragione della dipartita: una gestione folle e scriteriata.

Anche in questo caso si sostanzia una trasformazione culturale dei cinque stelle al potere in un luogo di potere. I grandi eventi, come le grandi opere, da sempre sono stati da loro criticati: visti come trogoli con scarso valore redistributivo progressivo. Meglio tanti piccoli eventi distribuiti sul territorio, dicevano. Oggi organizzare un salone del libro «più bello è più grande di prima» è divenuto cruciale per la città.

Rimane il fronte del bilancio lasciato dalla maggioranza precedente.

Potrebbero esserci buchi gravi, quindi sindaca e assessore al bilancio hanno pensato a un gesto forte: la certificazione esterna. Scatenando però le ire dei funzionari del comune e del Pd. «Due anni per il cambiamento, dateci due anni e poi giudicherete», questa è la richiesta che giunge dalla giunta.

Torino è generosa: ne ha concessi più di venti a chi ha preceduto i cinque stelle.