Dopo Fratelli d’Italia (1963-1993), uno dei pochi testi che con Petrolio e La cognizione del dolore oserei chiamare «anatomia», secondo la maniera tardorinascimentale inglese, riassestata per la modernità da Northrop Frye: una forma di prose fiction, di matrice menippea, caratterizzata da una varietà di temi; e dopo Sessanta posizioni (1971) e, più di recente, Lettere da Londra (1997) e America amore (2011), Alberto Arbasino va rifinendo il suo ‘anatomico’ caleidoscopio conversativo, guidato da orecchio arguto, occhio panottico, e da una voce/scrittura elegantemente tentacolare – prosa d’arte, secondo il suo genio. Così ai Ritratti italiani (Adelphi 2014) si aggiunge ora questo Ritratti e immagini (Adelphi «Biblioteca», pp. 353, € 23,00), sessantotto personaggi eminenti presentati in ordine alfabetico, con ‘immagini’ di altri in proiezione: comparse (non minori) o camei, e poi rispecchiamenti intrecciati, entrate e uscite dei protagonisti da un ritratto all’altro, e mille punti di fuga verso un discorrere ad ampie parabole, in cui prosperano sensibilità da kitsch, camp, cool, cult, e tanta sostanza di ragionamento, e di insight, in un mare di perlage.
E, ancora: se si eccettua Ritratto in piedi di Gianna Manzini, non viene in mente molto di più in Italia sul ritratto verbale (se non, forse, Praz, Cecchi, e saggisti tra le due guerre), per lo meno a paragone del bilancio ponderoso del canone anglosassone, a cominciare dai Ritratti immaginari di Walter Pater (che tanto immaginari non sono) e, quindi, di Oscar Wilde, Henry James, James Joyce, Dylan Thomas, T. S. Eliot, John Ashbery, anche con ispirazione pittorica; per non parlare del più storico Eminenti vittoriani di Lytton Strachey, che guarda indietro alle seicentesche Brevi vite di persone eminenti di John Aubrey. Ciò segnala un tropo tipicamente anglosassone (oltre che classicistico e persino vasariano), tra storico/memorialistico e poi visivo, l’unico cedimento, in questo secondo caso, concesso per molto tempo dallo spirito dell’intransigente iconoclastia protestante solo al ritratto, proprio perché ‘laico’. Nella sua personalissima appartenenza a correnti di punta della tradizione novecentesca italiana, Alberto Arbasino ha nel sangue un debole recidivo per la cultura d’oltre Manica e d’oltre Atlantico. Ma, naturalmente, non solo di quelle regioni. Ritratti e immagini ci porta anche amabilmente in giro per il mondo: per teatri, soprattutto.
Aneddotici pro-wit
In altrettanta trasparenza di impressione, sembra di poter aggiungere che i suoi Ritratti si reinventano rispetto al passato, perché sono per lo più esperienziali, quasi estemporanei, aneddotici pro-wit, impressionisti nell’attimo fuggente, solidi nell’arresto della scrittura, col fuoco puntato al centro giusto, che si tratti di dettaglio o di figura intera. Alcuni, infatti, si risolvono in uno spot epigrammatico, come per Edith Sitwell: «La vera chiacchierata sarà al Castello di Montegufoni», o per Greta Garbo: «Un’apparizione al Grande Bretagne di Atene (…) Ma l’allure e il carisma erano tali che ci si riferiva molto naturalmente (anche a causa del copricapo) alle dee del vicino Museo Archeologico. ‘Non si vedrà mai più un ciak simile’. Fu detto»; altri si infarciscono di un citazionismo facilmente pescato dal calderone e deglutito con gusto (Wilde, Kraus); e altri agiscono dalla distanza, con effetto più architettato: Eliot, còlto sul taglio poundiano di The Waste Land e memorie personali (di Arbasino) e domande biografiche insolubili, e E. M. Forster, «‘Scrittore la cui fama aumenta a ogni libro che non scrive’», e Benjamin Britten, raccontato in un bel riquadro sull’efebofilia, per un verso, e il «Male», per un altro, nel Giro di vite e Billy Budd in musica: «The Ceremony of Innocence is Drowned», dice l’incipit per voce di W. B. Yeats; altri ancora – i più lunghi – generano al loro interno, come per partenogenesi, figure di contorno còlte di striscio. Ma soprattutto, questa galleria è dialogica, ‘carnevalesca’, nel disegnare profili che appaiono semoventi, pronti ad autocrearsi rigo per rigo. Viene il sospetto che solo la nomenclatura sotto le singole lettere alfabetiche sia talvolta studiatamente organizzata. Colpisce la lettera B: Barthes, Bartòk, Beckett, Beerbohm, Benjamin, Bennett, Berg, Bergman (regista), Bernstein, Brecht, Britten, Brook, Bruckner: con tutto il rispetto per gli eminenti pensatori, si celebra qui un trionfo del teatrale/musicale.
La scena degli incontri
Di solito, la voce si insedia all’interno dell’allestimento, interloquisce dal vivo sulla scena degli incontri evocati/vissuti, agisce da regia, si avventura nei close-up, anche quando il contatto non è a tu per tu – come nel caso di Harold Acton, Barthes, Beckett, Nabokov, e di Adorno in uno sketch magistrale – ma per via libresca o musicale (Flaubert, Proust, Wagner, Rossini), o in praesentia e tuttavia a doverosa regale distanza: Marlene Dietrich a Copenhagen, Elisabetta II a Castel Sant’Angelo (il duetto qui registrato è in realtà un mini-ritratto scaramantico del «Vecchio Maestro»). Alcuni si limitano a una toccata e fuga rispetto alla grandezza del soggetto: «Come i comici veri, la Grande Signorina (i.e. Ivy Compton-Burnett) non ride mai»; «Una appassionata proiezione e identificazione, non con Madre Coraggio ma con Helene Weigel nel ruolo di Madre Coraggio. // Le canzoni che delizia. Sempre. // Ne ricordo soprattutto una, al Piccolo. ‘Non si deve andare più in là’… Si commentava un vate dell’opportunismo». Quest’ultimo è il ritratto di Brecht: quasi un motto, un mottetto.
Due grandi caduti
Ci sono poi i due grandi ‘caduti’, vittime dell’intenso connubio «Letteratura & Vita» e qualche altra causa: il Truman Capote di Preghiere esaudite, un tentativo di rifare Proust in America, mesciato a alcol e droga e maldicenze da piccola/grande pettegola, che gli costò l’ostracismo del mondo dell’arte e dell’alta società internazionale. Fu, in effetti, un suicidio letterario per «incoscienza mondana». E l’altro ‘caduto’, consuntosi per moglie, alcol, il luccichio del denaro e «troppo successo … troppo successo e troppo presto».
Parliamo dello sfortunato F. Scott Fitzgerald, omaggiato anche altrove nella ‘cosmicomica’ di Arbasino, in particolare in un teneramente ironico lungo passaggio di Fratelli d’Italia, sulla rovinosa – eppure trionfante con Tenera è la notte – caduta romana, fra monsignori (ce n’è uno in Di qua dal paradiso) e rovine nostre e sue, per fatalistico crack-up. In Ritratti e immagini Arbasino gli concede – una tantum – un riscatto di tono fiabesco, da c’era una volta o da dantesco biondo era e bello e di gentile aspetto: «però bello da vedere e provvisto di un certo fascino – imparò a scrivere in una maniera incantevole». E, quindi, va in cerca «di una giusta collocazione del Great Gatsby, di Tender Is the Night, di alcune poche storie indimenticabili e dello straziante The Crack-up nel ristretto paradiso dei classici contemporanei».
Tuttavia, la favola, come per lo sfortunato Gatsby, finisce qui, nel glamour paradisiaco, mentre si prosegue con uno scioccante colloquio di Arbasino con Edmund Wilson, amico e, un tempo, ammiratore di Fitzgerald, ma ormai stanco, troppo stanco (sarà vero?), della leggenda del biondo era e della, come dice qualcun altro, golden pen of the twenties. E si va avanti per diverse pagine con altre storie (il misterioso Monsignore romano e il suo Vaticano) su «quell’infelice ragazzo» fin troppo bravo che era Fitzgerald, e con un’incalzante arringa in sua difesa da parte di un Arbasino in veste di acuto detective, che lasciamo invece alla curiosità del lettore. Si leggano, infatti, con godimento questi Ritratti straordinari, tutti diversi, tutti catturanti, di cui non si può certo dire, come Arbasino scrive di quelli di Lucian Freud, che sono «tanti ritratti, e un’espressione sola».