Dal 23 maggio al 5 luglio 1916, esattamente cento anni fa, la galleria 291 di Alfred Stieglitz a New York esponeva al pubblico per la prima volta l’opera di Georgia O’Keeffe, dieci carboncini su carta. Georgia aveva 29 anni, Alfred 52: otto anni dopo sarebbero diventati moglie e marito. Il loro sodalizio artistico è documentato ora dalla mostra Georgia O’Keeffe alla Tate Modern di Londra (fino al 30 ottobre; catalogo a cura di Tanya Barson, TatePublishing, pp. 271, £ 30 in paperback e £ 40 in hardback), che si propone di rivalutare l’esperienza di un’artista a volte considerata immatura, infantile o banale e per lo più ridotta allo stereotipo dell’artista-donna che esplora l’identità e il corpo femminili anche dove non ci sono. Pittrice di fiori, paesaggi, teschi e cieli, su di lei vige lo stigma di essere stata parte di un ambiente piuttosto che individualmente geniale e interessata al mondo esteriore anziché ai conflitti interiori e alle dinamiche sociali; eppure il suo astrattismo tattile resta eccezionale nella pittura occidentale, perché Georgia O’Keeffe fu pittrice pura, estranea alle ideologie, da cui si dimostrò a più riprese infastidita, e dedita solo al visivo, fino a quando, novantenne, non fu colpita dalla cecità. «Quando prendi un fiore in mano e lo guardi intensamente, quel fiore è il tuo mondo in quel momento», diceva.

Immersa nella temperie del modernismo, con la sua inconfondibile marca di transito epocale, Georgia O’Keeffe si colloca inevitabilmente in quell’area culturale ed estetica che un tempo si sarebbe chiamata decadentismo, caratterizzata dal culto della forma, dalla ripetizione dei moduli e dal ripiegamento su se stessa; ma la consapevolezza che lì si celava una svolta molto più interessante, dalle pretese di assoluto del moderno, con la sua profondità figurativa e il suo finalismo narrativo, alla scoperta della soggettività, nei meandri della psiche e della memoria, segnata dall’interruzione, dalla frammentazione e dalla dispersione, ha fatto di quell’esperienza il nodo fondante della nostra modernità oltre il moderno, che la si voglia modernista, appunto, postmoderna o anche solo diversamente moderna. Di origine contadina nel Wisconsin, ma trapiantata a New York, Georgia si guarda intorno, stupita e curiosa, come se dovesse sempre ricominciare da zero: di qui le sue due maledizioni, cui si ribellò, di essere ingenua ed essere femmina.
Se c’è una figura che può tradurre emblematicamente il suo atteggiamento psicologico e la sua ricerca pittorica, questa è l’arco, prima manifestazione del proposito di trasporre la fotografia, di cui Stieglitz era maestro, su carta e tela: a ispirarla fu all’inizio la fotografia di Paul Strand (1890-1976), che cercava di catturare il segreto della forma nella vita quotidiana, realizzando immagini chiaroscurali in bianco e nero che appiattiscono la prospettiva in modo da valorizzare il gioco delle linee e delle ombre. L’arco attraversa dunque i quadri di Georgia, perché è forma in movimento, astrazione e trasformazione allo stesso tempo, contenitore di spazio e carico di colore, al punto da porsi come corona del sole al tramonto, lampo che squarcia il paesaggio, onda marina e sonora, struttura architettonica e cornice carnosa. L’astrazione non nasce dalla scoperta della forma nella natura (come nella maggior parte dell’astrattismo), ma dall’atteggiarsi di oggetti e corpi in figure dall’impianto fortemente geometrico: è esperienza sensoriale anziché disegno mentale. È tutto carnale, ad esempio, Grey Lines with Black, Blue and Yellow del 1923 (che sarà, una vagina? o due corpi con le gambe leggermente piegate in avanti a contatto di sedere? o la cupola di una moschea? o un sipario?), dove la fisicità pastosa delle linee e la sfumatura velata dell’ombreggiatura prevalgono sulla geometria del disegno, al punto da farci intuire cosa intendesse Stieglitz quando di fronte alle sue opere di Georgia, mostrategli dall’amica e compagna di scuola (di lei) Anita Pollitzer, esclamò: «finalmente una donna su carta».

Essere artista donna era però un marchio di minorità anche nella New York progressista dell’inizio del ventesimo secolo, sicché Georgia rimase la moglie di Alfred per quasi tutta la sua carriera: donna, quindi decorativa, immersa nei dettagli e intrisa di erotismo. Eppure reinventare le cose attraverso il colore, partendo dall’osservazione e dai materiali, non era affatto scontato, né facile, nella New York di primo Novecento, dove tutto era simbolo e analisi: la ‘Progressive Era’, con la sua fiducia in un’America moderna, costruita da un’arte capace di congiungere realtà e sogni, miracolosamente, come le scriveva Alfred nella dedica del libro di D.H. Lawrence, Reflections on the Death of a Porcupine, che le regalava nel 1925. Erano gli anni in cui nasceva il mito di «The New Yorker», la rivista di Harold Ross e Jane Grant, con sede sulla 45th street a Manhattan, anni immortalati in Port of New York: Essays on Fourteen American Moderns di Paul Rosenfeld, del 1924, e in Time Exposures di Search-Light (Waldo Frank), del 1926. Georgia O’Keeffe vi figura in posizione preminente, ma come oggetto misterioso, una «sfinge», la donna che porta nel mondo dei maschi quell’originalità e quella diversità che i maschi le chiedono di portare.

«Quando qualcuno trova simboli erotici nella mia pittura, sta parlando dei propri problemi», replicò lei una volta, nel tentativo, quasi disperato, di far prevalere il figurativo sul simbolico. La mostra fa emergere proprio questa tensione tra sguardo ed espressione, perché la realtà non è spiegabile con le categorie apprese a scuola e la sua scoperta porta a un’esperienza di traduzione. Traduzione che non può che tradire, una volta che il soggetto si è fatto interprete, ma al tempo stesso, nel suo dire sempre di meno (sottraendo alla realtà) e di più (aggiungendo chi la guarda), diventa l’unico modo possibile di rinunciare a possederla, la realtà (l’inutile utopia ottocentesca), e non rinunciare a rappresentarla, in un anelito di vitalismo agonistico. Una sfida alla musica, alla ricerca tanto di abbandono quanto di armonia, è in effetti tutta la pittura di Georgia O’Keefee, dove il tentativo di riprodurre sinesteticamente attraverso il colore (sincromia) la composizione e gli esiti della musica è un’ambizione costante. «Un pittore che non trova soddisfazione nella mera rappresentazione, per quanto artistica, nel suo desiderio di esprimere la sua interiorità, non può che invidiare la facilità con cui la musica, la più immateriale delle arti oggi, raggiunge lo scopo», scriveva Wassily Kandinsky nel 1914, con quel rigurgito di romanticismo che è alla base dell’astrattismo; ma O’Keeffe non trova soddisfazione nella geometria quanto geometria nella soddisfazione di vedere e dipingere: «è solo attraverso la selezione, l’eliminazione e l’enfasi che arriviamo al cuore delle cose», disse al tempo in cui era, ingiustamente, associata col precisionismo americano.

Le sue immagini di New York vista dal 30° piano di un grattacielo di Manhattan sulla 47th street e le sue gigantografie di fiori osservati nelle minime sfumature confermano un bisogno di guardare il mondo prima di poterlo conoscere, fino a istituire processi simbiotici fra arte e natura, civiltà e spirito, in cui il doppio costruisce armonia e al tempo stesso spezza l’armonia che ha appena costruito, come nello stupefacente New York Street with Moon (1925), dove la luce elettrica del lampione e l’alone atmosferico della luna si specchiano in un dialogo insieme ideale e impossibile. Si evolve e va avanti, Georgia, scoprendo la natura, i laghi, il New Mexico, le rovine e gli scheletri, ma la sua impronta resta nei primi trent’anni del Novecento, in quell’atmosfera newyorkese che tanto l’ha segnata e imprigionata.

È sempre stata vecchia, scriveva di lei Susan Hiller nel 1993, vecchia e famosa. È impossibile oggi negare che Georgia O’Keeffe sia prima di tutto il prodotto di uno specifico contesto culturale, a partire dalla lezione dei suoi primi maestri, Alon Bement e Arthut Wesley Dow, che le insegnarono il sincretismo fra le arti, ma proprio oggi siamo anche in grado di apprezzare quel che la sua pittura dice al di là delle sue radici e delle sue intenzioni personali. Se Judy Chicago e Miriam Schapiro ne hanno fatto un simbolo della liberazione femminista, non è senza ragione: vissuta quasi cento anni (1887-1986), Georgia O’Keeffe ha dato corporeità all’astrattismo e geometria alla realtà, attraversando in lungo e in largo le esperienze di un secolo di profonde trasformazioni come se ogni momento fosse già un salto in avanti, aperto ai significati che il futuro avrebbe potuto attribuirgli. «Vorrei che tu potessi vedere quello che vedo io fuori dalla finestra», scriveva al marito dal New Mexico nel 1934: ci è riuscita, se non con lui, almeno con noi.