Seicento pagine sulla retorica? Sembra arduo vincere la diffidenza verso un libro che si presenta con una mole così minacciosa, e con un contenuto impegnativo, fatto di un lungo testo greco di Aristotele, della sua traduzione italiana, e di un esteso commento: Aristotele, Retorica, a cura di Silvia Gastaldi (Carocci, pp. 637, euro 34,00).

Opportuno sarà forse un approccio indiretto. Lo fornisce ottimamente uno smilzo libretto di Roland Barthes, La retorica antica (Bompiani, 1972¹), che presenta con adeguati schemi strutturali «l’albero retorico», visualizzando i temi e i problemi affrontati da Aristotele con dettagliata discussione. Barthes lavorava entro la rinascita di interesse per la retorica seguita alla pubblicazione del Trattato dell’argomentazione di Perelman-Tyteca (1958, trad. it. Einaudi, 1976), ma le sue riflessioni restano molto attuali. Egli evidenzia infatti ciò che oggi pare rendere la lettura della Retorica specialmente utile: il fatto che questa téchne è essenziale a comprendere i meccanismi comunicativi odierni, «dove regna il ‘verisimile’ aristotelico, cioè ‘quel che il pubblico crede possibile’». Si comprende allora subito, contro vecchie svalutazioni, che in Aristotele la retorica è vista non come inganno, o come orpello vuoto, bensì come scienza della persuasione. Proprio in vista di questo scopo essa rinuncia a perseguire una astratta e difficile «verità», orientandosi secondo le disposizioni reali del pubblico. In un paese come l’Italia, la cui scena pubblica è, da un ventennio almeno, stabilmente dominata non certo da rigorosi «maestri di verità», ma da truffaldini affabulatori dotati di varia piacioneria, non si potrebbe pensare a strumento più utile: quasi un antidoto salutare.

Sivlia Gastaldi immette il lettore nella grande trattazione aristotelica, distesa su tre libri, per mezzo di un’introduzione essenziale. Qui viene messa in evidenzia anche l’ambiguità insita nella ricerca del filosofo: per metà manuale teorico «funzionale alla trasmissione di un sapere sul discorso», e quindi aperto all’uso dell’insegnamento (di là provengono in fondo i materiali che compongono il trattato); per metà anche metodo «per offrire ai cittadini la possibilità di comporre discorsi» razionali e persuasivi.

Proprio la compresenza di questi obiettivi conduce Aristotele (a differenza di quanto accade in Barthes, ad esempio) a indagare con molto dettaglio non solo gli aspetti tecnici del discorso, ma anche la «psicologia» dell’emittente e del destinatario, i «caratteri» (éthe) di chi parla, e le «passioni» (páthe) di chi ascolta, e gli strumenti logici ed espressivi adatti a conseguire la persuasione: numerosi sono perciò i punti di contatto fra le riflessioni svolte nella Retorica, nelle grandi opere etiche, ma anche nella Poetica (sui tipi di linguaggio). Anche per questo, la Retorica appare specialmente complessa. Da un lato vi è l’analisi degli «strumenti», sempre forniti di puntualissime definizioni preliminari e di ampia casistica; dall’altro vi è anche la riflessione filosofica e pragmatica sulla comunicazione. Lo si vede bene nella discussione a proposito dell’argomentazione: essa muove dalla constatazione, di immediata comprensione a qualunque italiano, che «di fronte alle masse, i parlanti incolti sono più persuasivi di quelli istruiti», e che in tale contesto «la precisione sembra essere superflua e peggiorativa» (non così in tribunale).

Esiste poi un solido rapporto, che non è sovrapposizione, fra retorica e politica: da tutto il trattato trapela la centralità della parola pubblica nella vita della polis, che al tempo di Aristotele non era più l’Atene mitica (o mitizzata) della democrazia di Pericle, ma che continuava a essere luogo di dibattito nelle assemblee deliberative come nei tribunali, e che costruiva la propria identità anche attraverso i discorsi «d’apparato» (quelli celebrativi, ad esempio).

Aristotele, pur criticando gli autori dei manuali retorici per l’eccessivo rilievo da loro dato alle «passioni», supera però l’aristocratico disprezzo platonico per le masse, e si mostra ben consapevole del fatto che il discorso, che ha come unico scopo la persuasione, deve necessariamente essere adeguato ai livelli di comprensione dei cittadini. Essi non costituiscono un pubblico «ideale», riflessivo e razionale, ma sono invece molto condizionati dalla «persistenza, nella città, dell’antagonismo e dei valori competitivi». Chi parla può e deve pertanto valutare l’effetto sull’uditorio della paura e della vergogna, dell’entusiasmo e dell’ira, deve insomma dominare la «mozione degli affetti»: ma, osserva la Gastaldi, «la differenza tra il metodo retorico e il puro e semplice ricorso all’elemento passionale dell’uditorio consiste nel fatto che è il discorso stesso a suscitare o a placare le passioni».

Le osservazioni di Aristotele in tema di psicologia dell’uditorio (ad esempio sugli atteggiamenti dei giovani, degli anziani e degli uomini maturi: pp. 206-13) aprono verso orizzonti che parrebbero propri della sociologia, se non dell’antropologia. Sono idee talvolta generiche, attente al carattere «medio» e stereotipato, ma proprio per questo particolarmente adatte a strutturare un discorso «mediamente» indirizzato a tali gruppi. Vi si ritrovano notazioni atemporali, come quella sui giovani che «vivono per la maggior parte del tempo nella speranza: la speranza riguarda il futuro, mentre il ricordo riguarda il passato, e per i giovani il futuro è lungo, mentre il passato è breve»; e altre osservazioni, invece, che suonano molto familiari per un lettore italiano: i ricchi «sono inclini all’oltraggio e arroganti, essendo in qualche modo influenzati dall’acquisizione delle ricchezze, voluttuosi per la mollezza e per mostrare la loro prosperità, pretenziosi e grossolani perché ritengono che gli altri agognino ciò che loro stessi agognano», e per questo desiderosi del potere politico.

Il commento si estende per quasi trecento pagine: una dimensione notevole, che si spiega con la scelta di corredare il testo di due percorsi differenti. Vi è, primario, l’impegno ad analizzare discorsivamente le differenti sezioni del trattato, dipanando la trattazione densa di Aristotele con ulteriori sviluppi e con riferimenti al dibattito più recente: le note che ne risultano sono ampie al punto che ne sarebbe possibile anche una lettura autonoma. D’altra parte vi è la specificazione dei dettagli, del tutto indispensabili al lettore odierno, in quanto molti sono i testi o gli eventi a cui Aristotele accenna di sfuggita, e ciò richiede di individuare le citazioni di altri autori, spesso minori, e di chiarire i riferimenti storici. La conciliazione di queste due linee non è sempre agevole, perché esse implicano un «passo» differente: ma il risultato è di indubbio interesse, soprattutto se si rimeditano le parole di Barthes: dato che Aristotele fornisce – nella Retorica e anche altrove – la griglia analitica completa funzionale a comprendere le «comunicazioni di massa», «in regime democratico, l’aristotelismo sarebbe la migliore delle sociologie culturali». Dunque la Retorica va proprio meditata con cura.