Seduta plenaria in diretta tv: nonostante la sua opinione non fosse vincolante per una decisione (già assunta domenica) che compete solo al governo, ieri il parlamento tedesco ha affrontato la questione dell’invio delle armi in Iraq contro lo Stato islamico in un modo decisamente più serio di quello italiano. Anche se l’esito è lo stesso (da Berlino partiranno per Arbil missili e munizioni per armare una brigata curda di 4mila uomini), la differenza nel contesto è clamorosa: la solennità del momento vissuto ieri dal Bundestag è lo specchio di un Paese che fa i conti con se stesso e alcune linee di fondo della cultura politica del dopoguerra. Il primo settembre non è una data qualsiasi in Germania: si ricorda l’avvio del secondo conflitto mondiale in una giornata-simbolo del pacifismo istituzionale (e popolare) della Repubblica federale. Il caso ha voluto che il dibattito parlamentare sulle «armi ai curdi» fosse in programma proprio ieri: al di là del merito della questione, la discussione ha finito per essere anche «introspettiva», sul significato da dare al ripudio della guerra, alla luce della responsabilità storica dei tedeschi.

Non è una novità assoluta: fu così per la guerra Nato contro la Serbia, giustificata dai fautori dell’interventismo umanitario – in testa l’allora governo Spd-Verdi – all’insegna del motto «mai più Auschwitz». Ora siamo un passo oltre: sono molte le voci ufficiali, come quella del presidente federale Joachim Gauck, che affermano che la Germania debba spogliarsi della sua eccesiva timidezza nelle questioni militari, assumendo un ruolo internazionale all’altezza della sua potenza economica. La ministra della difesa Ursula von der Leyen (Cdu) è arrivata a dire che ciò che le sta a cuore è, ancor più della decisione in sé sull’invio di armi, «la rottura dei tabù». Leggasi: del pacifismo.

Contro tale visione si è fatto sentire ieri in parlamento il capogruppo della Linke Gregor Gysi: il principale partito di opposizione respinge «l’idea di una nuova politica estera militarizzata», e nega che il rifornimento di armi a una delle parti in conflitto possa migliorare la situazione. Dello stesso avviso anche il portavoce dei Verdi, Toni Hofreiter, che ha posto l’accento sul rischio di conseguenze negative ora non prevedibili. Opposizioni unite nel chiedere che l’impegno della comunità internazionale si concentri sul lato umanitario e diplomatico, colpendo lo Stato islamico – per tutti «un grave pericolo» – attraverso forti pressioni verso i suoi finanziatori e protettori come Arabia saudita e Qatar.

Tra Linke ed ecologisti sono emerse, però, sensibili differenze nell’approccio alla questione: mentre per la formazione di Gysi il ricorso a strumenti di offesa militare è sbagliato in ogni caso, i Grünen lo ammettono come extrema ratio. A dimostrazione della non marginale presenza dell’ideologia del cosiddetto «interventismo umanitario» nelle file dei Verdi, la posizione esplicitamente a favore dell’invio di armi di uno dei due co-segretari del partito, Cem Özdemir, capofila dell’ala centrista: «Finora non ho sentito alternative credibili per riuscire a fermare le milizie dello Stato islamico», ha dichiarato ieri all’edizione online della Sueddeutsche Zeitung. La risoluzione finale in appoggio al rifornimento di armi ai curdi è stata approvata, secondo le attese, con i voti dalla «grande coalizione» Cdu-Spd.