Più di 130 carri armati Abram, 153 mitragliatrici M2 e 266 M240, 133 lanciagranate, visori notturni, ricetrasmittenti: c’è questo nel pacco che gli Stati Uniti invieranno all’Arabia Saudita. Il Dipartimento di Stato Usa ha appena approvato la vendita di armi dal valore di 1,15 miliardi di dollari a Riyadh. «Questa proposta di vendita contribuirà alla politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti – si legge nel comunicato ufficiale – contribuendo a migliorare la sicurezza di un partner strategico regionale che continua a essere un contributore importante per la stabilità in Medio Oriente».

La fiera dell’ipocrisia. Washington si tappa occhi e orecchi per portare a casa un bel gruzzolo, che andrà nelle casse della General Dynamics Land Systems. L’Arabia Saudita getta a piene mani benzina sul fuoco dei conflitti regionali, distribuendo armi e denaro a gruppi jihadisti. Quelle armi, che arrivano copiose dall’Occidente, le usa anche in proprio: ieri i raid sauditi in Yemen anche su abitazioni civili e secondo l’agenzia Saba non solo si deve aggiornare ancora il bilancio ufficiale di 6.300 vittime stimato dall’Onu per 500 giorni consecutivi di conflitto ma la chiusura da oltre 72 ore dell’aeroporto internazionale della capitale Sana’a ha bloccato del tutto l’arrivo di aiuti umanitari.

La conta dei civili uccisi va aggiornato ogni giorno, gli ultimi giorni però hanno visto un intensificarsi crescente delle operazioni aeree contro la capitale. La ragione della ripresa dei raid su Sana’a e il più generale rilancio dell’operazione «Tempesta Decisiva» è politica: con il dialogo in Kuwait fallito per l’ennesima volta, i ribelli Houthi hanno deciso unilateralmente la creazione di un consiglio governativo insieme al partito dell’ex presidente Saleh.
Eppure, nonostante un anno e 5 mesi di guerra, Riyadh non riesce a spuntarla. Gli Houthi, pur cacciati dai territori occupati a Sud, sono arroccati nel Centro-nord del paese, al confine con l’Arabia Saudita, opponendo al governo alleato dei sauditi una strenua resistenza. La monarchia Saud è invischiata in questo conflitto che non riesce a vincere, ma che mette in seria difficoltà le casse statali. Dati certi non ce ne sono ma a dicembre dello scorso anno (dopo 9 mesi di guerra yemenita) il ministero dell’Economia saudita faceva sapere che la spesa totale si assestava sui 5,3 miliardi di dollari.

Si sa anche che l’Arabia Saudita, paese con meno di 30 milioni di abitanti, è il terzo al mondo per budget militare dopo le superpotenze Usa e Cina: 87,2 miliardi di dollari all’anno per spese militari. Uscite consistenti, soprattutto alla luce del crollo del prezzo del petrolio che ha costretto la monarchia a misure economiche restrittive per mettere una pezza a un buco di bilancio di quasi 100 miliardi di dollari (il 15% del Pil): introduzione dell’Iva, taglio dei sussidi per acqua e elettricità, aumento delle tasse su tabacco e bevande, riduzione degli stipendi pubblici.

E poi collette: a chiedere donazioni private a favore dell’esercito saudita è stato Abdul-Aziz al Sheikh, la più alta carica religiosa del paese e gran muftì. Ha fatto appello a banche, privati, imprenditori a donare così da coprire le spese per i soldati uccisi e per rafforzare le difese militari a sud, al confine con lo Yemen.
Nonostante Riyadh compri armi a destra e a manca, pare non abbia abbastanza fondi per coprire i salari degli yemeniti, civili, che si sono uniti alle fila delle truppe governative del presidente Hadi. Diventati miliziani nella guerra agli Houthi, ricevevano uno stipendio di 8 dollari al giorno. Ma da gennaio di denaro non c’è e molti hanno deciso di svestire quei panni per indossarne altri: sarebbero migliaia a Taiz in particolare quelli che in libera uscita verso i gruppi salafiti e verso Al Qaeda nella Penisola Arabica, giudicati più affidabili del governo nella guerra ai ribelli.