Lo «scalpo» lo ha ottenuto senza problemi. E oggi lo mostrerà orgoglioso all’Europa intera. Se Matteo Renzi una settimana fa poteva dire legittimamente di aver «spianato» la minoranza Pd alla Direzione del partito, ieri all’ora di pranzo il premier aveva la faccia felice di chi ha asfaltato in un colpo solo i sindacati – tranne la Cgil – e ogni opposizione.

L’esito della fiducia al Senato è scontato e al vertice europeo sul lavoro di Milano quindi il presidente del consiglio arriverà con l’approvazione di una delega praticamente in bianco sull’articolo 18 a fronte di qualche piccola concessione su demansionamento, legge sulla rappresentanza e Tfr fatta apposta per dividere i sindacati e ricompattare le parti datoriali.

Ieri la modifica dell’articolo 18 ha avuto una nuova spiegazione. Che parte da una constatazione ovvia ma non scontata – almeno per Renzi – : «So anch’io che da sola non crea lavoro, ma serve per dare certezze alle imprese, per creare il giusto business context che consente loro di tornare ad investire e a creare lavoro».

Così motivata la modifica della disciplina per il reitegro in caso di licenziamento senza giusta causa rimarrà un mistero fino ai primi mesi del 2015: per «chiarire le fattispecie» bisogna «avere la pazienza di attendere il decreto legislativo», ha spiegato Renzi, lasciando al ministro del lavoro Giuliano Poletti l’ingrato compito di spiegare «le specifiche in aula».

Non fa infatti assolutamente parte dell’emendamento del governo sulla delega su cui il governo metterà la fiducia mentre – ha specicato il presidente del consiglio – «la disciplina del licenziamento disciplinare stabilita dal documento della direzione Pd sarà resa puntuale nel decreto legislativo». Mani completamente libere dunque, tanto che qualcuno inizia a sostenere che l’ambigiutà è necessaria perché il premier punta a togliere l’articolo 18 non solo ai nuovi contratti a tutele crescenti, ma a tutti i lavoratori.

Un quadro per lui idilliaco che lo porta a dirsi «particolarmente soddisfatto» della mattinata «a pieno regime della sala Verde». Un Renzi che quindi può perfino mostarsi umile – «ascoltiamo e impariamo cose da tutti» – perché tanto è sicuro che «si va avanti senza veti» sul suo modello che «non è la Thatcher, bensì la sinistra della Terza via di Blair o il Barack Obama di oggi».

La novità più grande rispetto ai giorni precedenti è però l’apertura – se non il via libera – di Confindustria e Rete Imprese al Tfr in busta paga. Se la contrarietà era dovuta al fatto che quei soldi erano l’unica liquidità rimasta, specie per le piccole imprese, il governo ha quietato le critiche annunciando che «lo faremo se piccole e medie imprese saranno garantite dai sistemi bancari» e dalla Cassa depositi e prestiti.

Il silenzio di Squinzi lungo tutta la giornata è più eloquente di qualsiasi parola. Confindustria e il resto delle organizzazioni datoriali hanno vinto su tutta la linea, articolo 18 in primis. L’Alleanza delle cooperative invece gongola per l’introduzione del salario minimo: «A noi serve per combattere il dumping delle false coop», spiega il neo presidente di Legacoop e dell’Alleanza delle cooperative, Mauro Lusetti. La concessione sul demansionamento – al lavoratore non verrà toccato il salario – viene definita «un falso problema: l’importante è ristrutturare e spostare i lavoratori».

Sul fronte europeo ieri però non è andato tutto liscio. Se fonti del governo di Berlino in mattinata hanno lodato il Jobs act, oggi la conferenza stampa Renzi, Hollande, Merkel dovrà fare i conti con le parole del custode dell’austerità: il commissario finlandese Jyrki Katainen. Durante l’audizione davanti al parlamento Europeo il dogma è stato ribadito: «Nei Paesi non c’è spazio di manovra per nuovo deficit e debito». E ancora: «Dobbiamo trattare tutti i Paesi nello stesso modo», annunciando che sarà lui – su delega dello stesso Juncker – a preparare «una interpretazione comune della flessibilità».