L’appuntamento pomeridiano con la canasta, la «partita del pomeriggio» era nata spontaneamente tra gli ospiti. Ognuno giocava per sé, per evitare discussioni, in un rituale sempre identico ma libero. Tra una mano e l’altra riflessioni, ricordi, suggestioni, lampi di intelligenza passata e futura si sarebbero presto rincorsi, rianimando occhi e mente di arzille vecchiette, intente a decifrare il geroglifico di un presente troppo simile a un limbo per non destare qualche sospetto.

A chi giovava quel limbo? A loro? Ai figli? Alla società? Sia come sia, la canasta del pomeriggio non rientrava fra le attività organizzate – e lautamente rimborsate da consistenti prelievi sui conti correnti degli ospiti – dall’amena residenza per anziani immersa tra i boschi nei pressi di Helsinki dove Minna Lindgren ambienta il suo romanzo d’esordio ora edito da Sonzogno, Mistero a Villa del Lieto Tramonto (traduzione di Irene Sorrentino, pp. 286, euro 16,50).

Ogni attività organizzata, ogni gesto, ogni pratica – tranne la canasta e le poche, pittoresche uscite degli ospiti «autosufficienti» che offrono un quadro molto suggestivo di Helsinki – in quel contesto di fragilità e di cura prevedeva l’intervento di operatori debitamente formati e arruolati per adempiere allo scopo. «Risorse umane» adibite alla sorveglianza di chi è giunto alla soglia della sua umanità. In Finlandia – osserva Lindgren – si va particolarmente fieri del fatto che l’aspettativa di vita delle persone sia salita fino a diventare fra le più alte al mondo. Mentre ognuno ha come obiettivo vivere il più a lungo possibile, la vecchiaia ha però perso terreno in termini di considerazione. A essa ci si rapporta quotidianamente, ma così come ci si relaziona a un problema da «gestire» e degli anziani si parla come di un grande e spaventoso gregge la cui cura costringe la società a lavori sgradevoli e a ingenti spese. Il termine finlandese vanhus, «vecchio», si usa raramente, ma nel romanzo ricorre senza alcuna concessione al politically correct.

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Mina Lindgren

Perché una società così fiera della sua «vita media», che ha sempre più anziani di cui farsi carico – questa una delle domande che si agitano sul fondo del giallo scritto con humour e garbata, ma mai spuntata ironia –, finita la loro esistenza lavorativa, decide di confinarli per venti, trent’anni in un limbo per «ex» (ex professori, ex operai, ex ferrovieri, ex ambasciatori) anziché, con più cinismo ma anche con più franchezza, liberarsene accompagnandoli alla morte? Perché queste linde e fiorite e interminabili anticamere per la morte?

È opinione comune che vecchi e bambini non abbiano diritto di starsene senza far niente, per questo nella quiete del Lieto Tramonto si impongono loro sedute di ginnastica, ore di terapia di gruppo, esercizi per la memoria, corsi di bricolage e concertini a base di fisarmonica e organetto. Attività che hanno un costo di gestione. Solo che, come osserva Minna Lindgren, ogni costo ha un suo rovescio e questo rovescio, dall’altro lato dello specchio, si chiama per l’appunto «risorsa». Chi – dietro la maschera sociale dell’inclusione – ne sopporta il costo?

Tra uno svago e l’altro, ecco i «servizi», vanto di Villa del Lieto Tramonto e di tutto il welfare finlandese. Anche questi, però, sono servizi sono pagati a caro prezzo. Capita a una delle protagoniste di accorgersi che anche le chiamate al soccorso d’emergenza, che dovrebbe essere incluso nella rata mensile, finiscano a per prosciugarle la pensione. Il servizio è stato infatti esternalizzato e appaltato a una ditta dal nome esotico e misterioso. In questa casa di riposo scopriamo così che i conti non tornano mai. Non tornano per le protagoniste del romanzo, le novantenni Irma e Siiri che, colpite dalla morte improvvisa del trentacinquenne cuoco della casa di riposo, cominciano a indagare, squarciando il sipario dietro il quale si nasconde il peccato originario di un’intera società all’apparenza tutta progresso e inclusione. Così, una delle ospiti, leggendo il nuovo prezzario, si accorge che: «Per tirare giù i pantaloni, quattordici euro. Sedici per tirarli su. Un conto salato, per un bisognino solo». Eppure i giovani – quasi tutti i lavoratori della residenza lo sono – non sembra stiano meglio. Perché se ne vanno tutti dalla Villa del Lieto Tramonto? Ritmi disumani e sussidi da riscuotere sono una delle ragioni. Li riscuote l’amministrazione, se riesce a assumere disoccupati che poi li si lasciava senza lavorare o costringendoli a ritmi talmente sfiancanti da indurli a loro volta, consumato il tempo di logoramento, alle dimissioni.

Senza sporcarsi le mani, la ruota gira così, da sussidio a sussidio, nel regno del burn-out, Villa del Lieto Tramonto. La solita storia, non fosse per il cuoco, Tero, morto a 35 anni, sulla cui vita e sulla cui morte Irma e Siiri si mettono a indagare. Scoprono, ad esempio, che sulle loro esistenze da ex insegnanti e dattilografe, apparentemente consegnate al vuoto, si innescano traffici di dubbia natura. Farmaci, doppie prescrizioni, gestione di benefici mai erogati, servizi sociali e assistenza sanitaria in mano alla mafia baltica – la peggiore, perché la più silenziosa.
Scoprono inoltre – con il candore dei bambini e degli anziani, cosa che rende le investigatrici della Lindgren figure quanto mai riuscite nel panorama delle inchieste condotte sotto spoglie letterarie – che questo sistema è solo una riduzione in scala di quel sistema più grande che chiamiamo «società». Tanto il piccolo, quanto il grande si legano per un nesso di analogia: entrambi sanno trarre profitto dalla vita, dalla morte, dalla malattia, dal lavoro ma persino dal non lavoro, dall’inerzia e dalla demenza.

Ogni cosa è messa a valore e in questa messa a valore (finanziario, s’intende) non sono estranee le mire di multinazionali che innestano il proprio biobusiness su uno scenario thinking chiaro e incontrovertibile: una società di vecchi è una società di deboli, una società che invecchia è alla merce della più radicale forma di profitto, quella che si innesca sul bisogno, sulla cura e sulla precarietà.

Al Lieto Tramonto, la caporeparto faceva lavorare i dipendenti «come muli, li pagava male e non ringraziava mai. Ecco perché i giovani si stancavano di quel lavoro. Erano sempre sotto pressione, un ritmo micidiale, in un luogo in cui nessuno aveva fretta di andare da nessuna parte e dove non accadeva mai nulla». Si licenziavano e, al loro posto, in un giro di sovvenzioni statali e incentivi da far impallidire Mafia Capitale, si assumevano profughi e disoccupati, solo per trarne un vantaggio fiscale. Finché c’era il vantaggio, tutto andava bene. Poi i ritmi avrebbero indotto il malcapitato assunto a causa delle dimissioni di quello precedente a rassegnare le proprie, a beneficio solo temporaneo del malcapitato futuro.
Quello di Minna Lindgren è un romanzo denso e godibile, ma tagliente. Per capirlo a fondo va rimarcato che, alle qualità musicali della scrittura, unisce qualità di struttura. In questo senso giova ricordare che Mistero a Villa del Lieto Tramonto muove da un rimportante retroterra d’inchiesta, fuoriuscendo così dal doppio stereotipo (tutto nostrano) che vede la letteratura finlandese impegnata unicamente con renne o alcoolismi più o meno letterari.

Nel 2009, Lindgren ha ricevuto uno dei più importanti riconoscimenti in ambito giornalistico, il Bonnier Prize per la «Storia dell’anno», con un racconto-inchiesta sulla morte del padre, pubblicato sul supplemento mensile Helsingin Sanomat. Scrittrice, oltre che giornalista, nata a Helsinki nel 1963, sia con la sua inchiesta, sia con questa prima tappa della Trilogia di Helsinki. Lindgren ha avuto il merito di alzare il livello di discussione su un sistema sociale e su un Paese, la Finlandia, a torto o ragione considerato all’avanguardia nei modelli di welfare e nel rapporto tra biopoteri e forme di vita, innovazione tecnologica e integrazione sociale. Proprio grazie al suo lavoro, qualcosa si è mosso nell’opinione pubblica dentro e fuori la Finlandia, incrinando un luogo comune che troppo spesso ha indotto anche gli osservatori più attenti a identificare, con leggerezza, il Paese che, tra il 60° e il 70° parallelo, segna l’estremità nord-orientale dell’Europa, con il paradiso di un welfare inclusivo e totale, in particolare per quanto riguarda l’assistenza agli anziani.
Anche il più dinamico dei Paesi scandinavi si trova oggi davanti al punto cieco di uno sviluppo che, a fronte di una tassazione elevatissima (siamo al 51,1% di imposta sui redditi delle persone), aveva finora assicurato una buona tenuta in termini di servizi e sicurezza sociale.
Fino a quando reggerà questo sistema? È solo questione di numeri, cifre, bilanci o c’è una visione dei legami sociali e dell’uomo che si mostra incompatibile non solo con una vita media sempre più lunga e sempre più fragile ma con ogni forma di vita che non si pieghi all’idolo del biobusiness? Non saranno certo le vecchiette di Minna Lindgren a darci queste risposte, ma a dispetto dei loro anni proprio loro hanno il coraggio di metterci davanti a una domanda che, qui e ora, non è più possibile scansare.