Da settimane la famiglia Abdel Fatah denuncia l’uccisione dei propri cari in quella che fu definita dal governo egiziano una sparatoria. Il 24 marzo cinque uomini sono stati uccisi dalla polizia al Cairo; poco dopo nella casa del presunto capobanda, Tarek Abdel Fatah, in realtà imbianchino, sono comparsi i documenti di Giulio Regeni. Per il Ministero degli Interni la prova della loro colpevolezza, versione mai accettata dalla procura di Roma.

Ora a parlare sono due testimoni che avvalorano la tesi della famiglia degli uccisi e che spiegano le foto che già circolavano online: in un articolo del 27 aprile riportavamo delle immagini pubblicate sul sito Tahrir News, corpi crivellati di colpi ma con nessuna arma da fuoco al loro fianco.

Un’esecuzione a sangue freddo, la definiscono le due fonti citate ieri dall’Associated Press: i 5 erano disarmati quando il loro minibus è stato circondato dalla polizia. Subito dopo i video delle telecamere di sorveglianza sono stati sequestrati ed è partita la pantomima del ritrovamento dei documenti di Giulio a casa della figlia di Tarek e moglie di un’altra vittima Ali: il Ministero degli Interni, dice Rasha all’Ap, «ha provato a coprire i propri misfatti uccidendo la mia famiglia». E, aggiunge, la sera del 25 gennaio quando Giulio scomparve non si trovavano a Dokki ma a Sharqiyya, a due ore di macchina dalla capitale.

L’ennesima rivelazione giunge in un periodo caldo, tra il primo maggio e il 3: due date simboliche che in Egitto assumono un significato ancora più profondo. Se domenica si celebravano i lavoratori, oggi si celebra la Giornata Mondiale della libertà di stampa, due settori della società che più di altri subiscono la repressione del Cairo. E per noi italiani, come per gli egiziani che chiedono verità per Giulio, è impossibile non pensare alla scomparsa atroce del ricercatore che proprio dei sindacati indipendenti aveva fatto l’epicentro del proprio lavoro. Non a caso le manifestazioni e i concerti dei sindacati italiani domenica sono stati dedicati alla sua memoria.

Dal 15 aprile l’Egitto ha assistito ad un’escalation di proteste e repressione governativa: sono 1.277 – dice il Front to Defend Egyptian Protesters – gli arrestati dal 15 al 27 aprile, tra cui Ahmed Abdallah, consulente della famiglia Regeni. E le violenze continuano: domenica il governo ha impedito a centinaia di lavoratori di prendere parte nella capitale all’assemblea per la festa dei lavoratori.

Poco dopo nel mirino finiva il sindacato della stampa, luogo di ritrovo dei manifestanti: 60 poliziotti ne hanno attaccato la sede e arrestato due giornalisti, Amr Badr e Mahmoud El-Sakka, direttore e reporter dell’agenzia January Gate. Ieri la reazione ad un evento mai accaduto nei 75 anni di storia del sindacato: centinaia di avvocati, attivisti e giornalisti si sono ritrovati sul posto per protestare contro «il barbaro attacco» e indirre per domani un’assemblea generale.

Nel mirino della stampa indipendente c’è il Ministero degli Interni e il suo uomo forte, Magdy Abdel Ghaffar: il sindacato ne ha chiesto ufficialmente le dimissioni e annunciato un sit-in a tempo indeterminato fino alla sua sostituzione. «Il sindacato ritiene che la gravità dell’aggressione, in violazione della costituzione e delle normative nazionali e internazionali [gli articoli 76 e 77 della costituzione egiziana vietano raid in qualsiasi sindacato], non può essere cancellata senza le dimissioni del ministro degli Interni – si legge in un comunicato – I giornalisti ritengono il presidente al-Sisi responsabile di un crimine senza precedenti, assalto palese alla libertà di stampa volto a impedire ai giornalisti di svelare i crimini del governo, omicidi, arresti e torture di migliaia di egiziani».

Ghaffar non è una personalità qualsiasi: braccio destro del presidente, salvato dal rimpasto di governo un mese fa, è il pugno di ferro che gestisce arresti e sparizioni forzate, pratiche ormai istituzionalizzate.

Ben diversa è la versione del Ministero che dice di aver seguito le procedure previste dalla legge, inviando la polizia su mandato della magistratura. Non una novità: da tempo il governo usa il sistema giudiziario come strumento di repressione, nascondendosi dietro una cortina di presunta legalità. Le stesse accuse mosse contro i due giornalisti rientrano nella legge anti-terrorismo varata da al-Sisi: «Incitamento alla violazione della legge sulle proteste e tentativo di destabilizzare il paese».

A disturbare però i piani del governo sono gli altri sindacati (ingegneri, avvocati, medici), che ieri hanno garantito sostegno nel caso di procedure legali contro il Ministero. Le associazioni dei lavoratori egiziani restano centrali, come 6 anni fa, e il governo lo sa se invia la polizia a bloccare la manifestazione del primo maggio e nega il riconoscimento ufficiale ai sindacati indipendenti. Di ufficiale c’è solo il sindacato unico, l’Egyptian Trade Union Federation, 24 sindacati controllati dall’esecutivo e braccio della tentacolare struttura istituzionale.

I movimenti dei lavoratori sono stati costola della rivoluzione con la loro legittima richiesta di uguaglianza socio-economica. E possono esserlo di nuovo: per questo da un anno nessun sindacato indipendente ha potuto registrarsi negli elenchi ufficiali e da marzo il Ministero degli Interni ha emesso una normativa che ne definisce illegittimi documenti e rapporti.