Quando, lo scorso 3 febbraio, è stato diffuso in rete il video della brutale esecuzione dell’aviatore giordano Moath al-Kasasbeh, la reazione di una parte del mondo islamico nei confronti dell’Isis si è manifestata con forza, raggiungendo in alcuni casi una straordinaria violenza. Alla immediata messa a morte di Sajida al-Rishawi e Ziad al-Karbouli da parte di Amman (decisione nella quale si palesa la volontà di compiere una vendetta dalla marcata valenza dimostrativa), si sono affiancate le dure parole di Ahmad al-Tayyib.
Tuttavia, la dichiarazione – divenuta rapidamente celebre – nella quale il capo religioso dell’università egiziana di al-Azhar auspicava la crocefissione e l’amputazione degli arti per i terroristi che hanno commessa l’esecuzione del pilota giordano, non può essere compresa nella sua complessità se non si prende in considerazione il substrato religioso e simbolico che ha mosso tanto l’uccisione di al-Kasasbeh, quanto le parole dell’Imam.

Il divieto islamico alla cremazione dei corpi e la sanzione coranica per «i tiranni che corrompono e che fanno la guerra ad Allah» rappresentano due cardini sostanziali nella modalità di gestione di questo scontro, in relazione al quale il trattamento del corpo (da onorare e da punire, puro e impuro, del credente e dell’infedele) sembra acquisire una rilevanza tutt’altro che trascurabile.

D’altro canto, il corpo umano (in quanto proiezione, prodotto ma anche matrice in negativo di quello divino) occupa un ruolo fondamentale non solo nella formulazione delle pratiche, ma persino nella definizione dello stesso pensiero religioso. Proprio nel corpo dell’uomo, segnato da una sostanziale e ambigua commistione di carne e sangue, vengono a compenetrarsi i simboli della vita e della morte, della caducità e dell’eterno.

Non a caso è su di esso, sulla sua gestione e normazione, che i diversi pensieri religiosi giocano una battaglia accanita; a partire da esso si esprime e si articola quelle che possono essere definite la violenza della e nella religione. Come scrive Ugo Fabietti in Materia Sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa (Raffaele Cortina Editore, pp. 308, euro 25), si può affermare che «le religioni intese come sistemi di comportamenti fondati su principi normativi contengono una forma di violenza che esse continuano a riproporre – non fosse altro che per negazione mettendo sempre gli esseri umani di fronte alla presenza del male – alla riflessione e all’esperienza dei propri fedeli. In questo senso (…) la violenza religiosa è qualcosa che agisce come un «meccanismo di produzione del sacro». In questa prospettiva la violenza non è prerogativa esclusiva di una qualche forma di religione (…), bensì di tutte».
Anche attraverso questa «costruzione violenta» (da intendersi senza estremismi e prendendone in considerazione i diversi gradi possibili) le culture religiose continuano a influire considerevolmente sulla articolazione delle dinamiche politiche e di potere, all’interno del sistema internazionale. Riflettere anche sulla loro componente materiale (in una prospettiva articolata e di ampio respiro, che non si limiti all’osservazione e all’analisi dei parafernalia) si rivela, pertanto, una operazione imprescindibile per la comprensione anche della contemporaneità.

La diffusione di questo tipo di studi – la cui origine risale solo ad alcuni decenni fa – si è determinata con l’assunzione, da parte delle scienze umane e sociali, di un nuovo sguardo, in grado di leggere gli oggetti e le immagini «come entità con una storia propria che può essere indagata dal punto di vista di una loro ’vita sociale’ o di una loro ’biografia culturale’». Sguardo che, nella densa introduzione al libro, Fabietti identifica come l’evoluzione di un percorso definitosi con l’attraversamento delle formulazioni (tra gli altri) di Marx, Merleau-Ponty e Baudrillard e che, nell’àmbito degli studi sulle religioni, ha provato a risaldare quella antica scissione creata tra spirito e materia, in modo particolare dal pensiero occidentale. Una scissione che, ancora oggi, non è stata completamente sradicata dal sentire religioso e che, nella volontà di innalzare la natura del proprio credere, mette in ombra una componente primaria della realtà religiosa.

Questo libro acquisisce, pertanto, un punto di vista straordinariamente utile e interessante, riuscendo a illustrare perfettamente come «senza gli elementi materiali, fenomeni come l’autorità, la disciplina, la dimensione della violenza, il sacrificio, le stesse visioni, e probabilmente la credenza, la fede, la devozione, la pietas, non solo non sarebbero comprensibili, ma forse non esisterebbero nemmeno».