A 22 anni, l’esistenza di Giuseppe Luzza poteva essere riassunta in un solo aggettivo: irreprensibile. Per quale motivo, dunque, il giovane scomparve nel nulla, il 15 gennaio del 1994? L’unica foto che circola in rete lo vede in posa a torso nudo, probabilmente al mare, il volto poco più che adolescente, sereno, sotto una folta capigliatura scura. All’epoca era innamorato di una coetanea, a sua volta imparentata con un boss della ‘ndrangheta: Antonio Gallace, uno dei protagonisti della cosiddetta «faida delle Preserre vibonesi» tra i comuni di Gerocarne e Acquaro, ancora oggi non sopita del tutto. Da quasi trent’anni affiliati, familiari e a volte persone innocenti vengono catturati, portati nei boschi, interrogati sotto tortura, massacrati e sepolti senza lasciare tracce, andando a ingrossare le fila dei desaparecidos di casa nostra. Il 28 settembre del ’93, pochi mesi prima di Giuseppe Luzza, era toccato a Placido Scaramozzino, di professione parrucchiere: fu sequestrato, tramortito a colpi di zappa e, a detta di un pentito che aveva partecipato al rapimento, sepolto in una fossa scavata per l’occasione mentre ancora respirava.

«La zona del vibonese è conosciuta come quella dove le persone spariscono senza lasciare traccia», scrive Umberto Ursetta nel suo Vittime e ribelli, un libro nel quale ricostruisce numerosi casi di femminicidi e omicidi legati al codice d’onore della ‘ndrangheta: donne uccise perché tradivano il marito in carcere o perché volevano evadere dalla gabbia della logiche mafiose, uomini spariti nel nulla perché amanti della donna sbagliata, coppie di amanti trucidate per gli stessi motivi. Un lungo elenco che ha il suo acme nella scomparsa, a Milano e non in Calabria, di Lea Garofalo da Petilia Policastro, cittadina di minatori e ‘ndranghetisti, portata in televisione da Marco Tullio Giordana, ma pieno di vittime non assurte agli onori della cronaca: Annunziata Pesce da Rosarno uccisa dal fratello perché sospettata di tradire il marito, Giuseppina Stricagnolo di Cirò fatta ammazzare dal consorte detenuto in Germania, Francesca Bellocco da Rosarno eliminata dal figlio a causa di una relazione extraconiugale. Di Santino Panzarella da Acconia, frazione di Curinga, che aveva circuito la moglie del boss Rocco Anello che aveva il compito di proteggere, sarà ritrovata solo una clavicola nel luogo dov’era stato sepolto.

L’unico torto di Giuseppe Luzza fu quello di essersi innamorato di una ragazza che, per sua sfortuna, era la cognata del boss Gallace di Gerocarne, un piccolo comune del vibonese. Il codice di ‘ndrangheta non contempla i matrimoni misti con ragazzi “normali”, che provengono da una famiglia non affiliata, e neppure ha cancellato il delitto d’onore, come solo nel 1981 aveva fatto il diritto penale italiano. Inoltre, per la giovane erano già state stabilite nozze d’interessi con il rampollo di un’altra famiglia malavitosa, che sarebbero dovute servire a rafforzare i rapporti con quest’ultima. Per questo Luzza era un ostacolo che andava rimosso.

Boschi insanguinati
Ancora oggi, a caso risolto, Matteo non si stanca di raccontare quello che accadde a suo fratello, due anni più grande di lui. Erano cresciuti insieme e per lui andare in tutta Italia a raccontare la sua storia e impegnarsi contro la ‘ndrangheta che voleva cancellare ogni traccia della sua esistenza è un modo per continuare a tenerlo in vita. Lo ascolto a Polistena, nel palazzo confiscato ai boss Versace e consegnato alle associazioni antimafia, tra le quali Emergency che vi ha aperto un ambulatorio per gli africani di Rosarno e Libera, della quale lui stesso è referente per la Calabria. Non omette i particolari, ormai diventati verità giudiziaria grazie al fatto che tre dei sette componenti il commando che il 15 gennaio del ’94 lo prelevò da casa sua ad Acquaro, inviati dalle cosche della Piana di Gioia Tauro in uno “scambio di favori” con quelle del vibonese, si sono pentiti, svelando dettagli e retroscena dell’agghiacciante omicidio. Tra questi, pure il killer al quale fu affidato il compito di dare il colpo di grazia a Giuseppe: un ragazzo di 17 anni al suo “battesimo di fuoco”, una “prova di coraggio” necessaria per cominciare la carriera nell’organizzazione malavitosa.

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A Giuseppe Luzza, condannato a morte dalle cosche perché non era uno di loro, fu riservata una sorte analoga a quella toccata pochi mesi prima al parrucchiere Scaramozzino: «Portarono mio fratello fra i boschi, scavarono una fossa e lo buttarono dentro, cospargendolo di benzina. Mentre bruciava vivo, i più grandi misero una pistola in mano al minorenne e gli chiesero di fare fuoco». Il killer gli scaricò addosso l’intero caricatore, superando la prova del fuoco di uccidere un altro uomo senza mostrare esitazioni. Poi riempirono la fossa di terra e ricoprirono il cadavere affinché i poveri resti non fossero mai più ritrovati. Il caso sarebbe stato archiviato come l’ennesima lupara bianca se, appena due mesi dopo, uno degli autori dell’efferato assassinio non si fosse pentito e avesse fatto ritrovare il corpo indicando agli inquirenti dove scavare. Era il 21 marzo del 1994, primo giorno di primavera. Una giornata che sarà poi consacrata da Libera alle vittime innocenti delle mafie.

Questioni d’onore
Al processo, tre pentiti del commando che aveva sequestrato Giuseppe Luzza, tra i quali il ragazzo di 17 anni che aveva finito il ventiduenne di Acquaro, hanno raccontato che Antonio Gallace non aveva accettato il fidanzamento della sorella di sua moglie con un “ragazzo normale” e aveva deciso un’azione eclatante per dimostrare «chi comanda sulla famiglia e sul territorio». Nella sentenza che ha condannato quest’ultimo all’ergastolo come mandante dell’assassinio si parla di «visione distorta delle ragioni di onore familiare». Il vocabolario mafioso la indica con un sostantivo, «dignitudine», che non è altro che un sinonimo di «reputazione ‘ndranghetistica». Se un affiliato la perde, si sgonfia tutto d’un colpo: non è più un uomo di rispetto e svanisce qualsiasi timore reverenziale nei suoi confronti. È l’adesione a queste regole, oltre a una concezione proprietaria della donna, che spinge a commettere efferate uccisioni. Sull’adesione al codice d’onore e sul maschilismo di cui la ‘ndrangheta, secondo l’esperto di mafie Antonio Nicaso, è «la più sicura roccaforte», si innestano poi gli immancabili affari, vera ragion d’essere delle cosche malavitose. Per non veder compromesso tutto ciò, Gallace ordinò l’eliminazione del giovane fidanzato della cognata.

Il killer chiede perdono
Ventidue anni dopo, il killer all’epoca diciassettenne è stato condannato a 21 anni di reclusione e dal carcere lo scorso Natale ha pure inviato una lettera alla famiglia invocandone il perdono. La famiglia Luzza se l’è vista recapitare a sorpresa e Matteo è convinto che l’assassino, «se avesse avuto un lavoro e l’opportunità di frequentare una biblioteca», forse non avrebbe ucciso suo fratello. Come a dire che la sottocultura che alimenta la ‘ndrangheta si sconfigge a scuola e offrendo opportunità ai giovani, sottraendoli a un destino segnato.

Piuttosto, quello che ha fatto più male alla famiglia Luzza è stato l’atteggiamento di molti loro concittadini: «In paese dicevano che Giuseppe non si era fatto i fatti suoi, che era andato a donne o che comunque qualcosa doveva aver fatto per essere stato punito in quel modo», quasi a giustificare i carnefici e colpevolizzare le vittime facendo loro «provare un senso di vergogna». È anche su questa capacità di invertire l’onere di attribuire le responsabilità che si regge il controllo sociale, e dunque il potere, delle organizzazioni mafiose.