Atalya Ben-Abba ha diciannove anni. È nata e vive a Gerusalemme Ovest. Atalya si è rifiutata di entrare nell’esercito israeliano e per questo verrà processata il prossimo febbraio. Per Israele, il suo paese, è una traditrice. Ieri, in occasione della giornata internazionale di solidarietà ai refusenik, l’abbiamo incontrata. Questa è la sua storia.

«SONO NATA A GERUSALEMME, dove vivo tutt’ora. Quando avevo dodici anni mio fratello decise di non entrare nell’esercito; in Israele si tratta di un obbligo civile: guerra, conflitto e violenza fanno parte della nostra vita fin da quando siamo bambini. Io sono cresciuta proprio al confine tra Gerusalemme est e Gerusalemme ovest, nel quartiere di Musrara, posto precisamente a cavallo tra due mondi completamente diversi. C’è una grande differenza: a est è Palestina, da piccola con mia madre ho percorso tante strade in quella zona, mi sembrava di essere in un paese diverso, perché la differenza tra i due luoghi è clamorosa. Vedevo le demolizioni, gli scheletri delle case e c’erano soldati dappertutto.

Insieme a questi ricordi ho quello del primo attacco: venne ucciso il guardiano della mia scuola, avevo sette anni. Ricordo grandi cerimonie in sua memoria. Lì ho preso coscienza per la prima volta del cosiddetto «conflitto» tra Israele e Palestina, ma devo specificare una cosa: non mi piace parlare di «conflitto» perché non è così, questa espressione non corrisponde alla verità, ovvero un’occupazione. La scuola dove sono cresciuta è considerata di sinistra, ho trascorso la mia infanzia nel rispetto «dell’altra parte». Fin da piccola ho visto loro, «i palestinesi», così come i soldati, i «nostri», e sono stata fin da subito in grado – o così mi piace pensare – di scorgere il lato umano della questione.

MOLTI MIEI COETANEI vivono nella costante «paura» dell’altro, come fossero mostri. A undici anni ho cambiato scuola e tutto è stato diverso, fin da subito: per la prima volta ho incontrato ragazzi della mia età che vivevano una vita completamente pervasa dal sentimento dell’odio nei confronti dei palestinesi. Non si può dire fosse una scuola di sinistra. Io mi sono sempre considerata di sinistra, la mia famiglia nonostante le nostre vicissitudini è una famiglia di sinistra. Questa condizione significava avere molti argomenti dalla mia parte e osservando i miei nuovi compagni di scuola mi chiedevo come si potesse essere così razzisti. A un certo punto mio fratello decise di non entrare nell’esercito: si è trattato di un fatto molto scioccante per me, perché mi sono trovata di fronte a una scelta clamorosa che mi ha invogliato a saperne di più dell’occupazione.

Quando mio fratello ha nominato quella parola, «occupazione», è stata la prima volta che l’ho ascoltata. In Israele non la chiamano così, non parlano di quello, parlano di una «guerra». È una delle grande bugie che circolano in Israele. Non siamo in guerra, non si tratta di uno scontro tra due eserciti, non combattiamo altri soldati. Si tratta di civili che combattono contro gli occupanti.

Non sono uguali le due parti, per niente. I miei insegnanti…mi ricordo il maestro di storia, era di sinistra: nelle sue lezioni usava terminologie diverse dal solito, parlava di occupazione, parlava della situazione a Gerusalemme est, le difficili condizioni di vita dei palestinesi. A ovest è come vivere in una città europea, alla fine; a est non c’è acqua, non c’è elettricità, è come fosse un mondo alieno e diverso, è una vita completamente differente. Hanno gli stessi obblighi però, pagano le tasse i palestinesi, ma non gli stessi diritti: siamo di fronte a un vero e proprio razzismo.

IN ISRAELE A UN CERTO PUNTO devi fare una specie di training, di avvicinamento a tutto quanto è militare, a tutto quanto è divisa, armi, esercito. Per me fu straziante oltre che sconvolgente; in quella circostanza ho davvero capito che non sarei mai stato un soldato. Percepii una sensazione tragica e allo stesso tempo ridicola, o almeno è quello che pensai, perché a 17 anni avere a che fare con armi e violenza mi pare assurdo. È all’interno di questa situazione straniante che ho capito che quello non sarebbe stato il mio mondo, che non avrei fatto il soldato e che avrei fatto l’attivista. Si tratta di una scelta che condiziona tutta la vita, l’esercito fa di tutto per farti cambiare idea. Tutti hanno molta paura di questa scelta. Perché tutta la tua vita sociale e lavorativa futura ruota intorno a questa decisione. La mia famiglia ha avuto momenti difficili. Ora è diverso, ma quando mio fratello – che ha sei anni più di me – decise di rifiutare l’esercito, non si trattava di una prassi molto comune.

I MIEI FURONO SORPRESI e preoccupati, anche perché con questo tipo di scelta rischi di fare una vita da outsider. Mio fratello poi ha vissuto anche un anno in Italia, poi è tornato, fa attività politica ma non ha un lavoro, come tanti altri che hanno fatto questa scelta. La nostra vita è da outsider, si tratta di qualcosa di molto chiaro quando si compie questo strappo. Della mia decisione ho parlato anche con mio nonno. Lui appartiene a un mondo diverso dal mio. Quando aveva la mia età Israele non esisteva, benché vivesse qui. Per lui combattere significava la sopravvivenza del paese. Vive nell’ombra di un mondo che non c’è più.

PER LUI AVERE UNA CASA, avere una «casa per gli ebrei», è estremamente importante. È quello che pensano ancora molti in Israele: dobbiamo combattere per la nostra casa altrimenti saremo quelli che verranno uccisi e bruciati. Fa parte anche questo della propaganda; infine, mio nonno mi ha detto che la mia scelta è stupida.

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Dopo la scuola ho fatto il mio anno di «servizio civile», una vera e propria preparazione a quello che poi diventa il periodo militare (tre anni per i maschi, due per le donne, ndr). Lo fanno tutti i teenager in Israele. E poi si suppone che le persone con cui fai questo servizio siano i tuoi commilitoni quando entrerai nell’esercito. Ma io avevo deciso che non avrei fatto il soldato, neanche per essere utilizzato come «soldato morale», tipo andare ai check point e sorridere. Il problema non è sorridere, il problema è che ci sono i check point. La soluzione non è sorridere ai check point, è non avere più check point. Ho studiato molto, non mi interessava questa possibilità. Io non sarei mai stata un soldato.

RIFIUTAI QUESTA OPZIONE, quella di andare insieme nell’esercito per essere poi suddivisi in diverse unità. E così annunciai la mia diserzione. Per Israele sono una traditrice, ho infranto una legge e sarò perseguita per questo. Questa è la nostra democrazia, in Israele.

So che dovrò affrontare, come altre ragazze della mia organizzazione, la Mesarvot, processi e carcere. Ma sono convinta, so bene quali sono le conseguenze, sono preparata. In quel periodo ho trovato la chiave della mia scelta: l’ipotesi di essere un «moral soldier» mi ha convinto che la mia moralità e la mia coscienza non bastano per salvarmi. La mia volontà è fare qualcosa che possa influenzare tutta la società. Se fossi diventata una soldato «morale», come dicono in Israele, avrei salvato la mia coscienza. Non mi sarebbe mai bastato. Quanto ho deciso di fare significa: rifiuto questo sistema crudele che alimenta l’occupazione e la pessima vita che fanno oggi i palestinesi. Abbiamo un governo di destra e l’esercito è uno strumento fondamentale dell’occupazione. Io rifiuto di essere uno strumento di questa occupazione. È il cuore della mia scelta.

ESSERE REFUSENIK significa parlare di occupazione. E in Israele molte persone soffrono la propaganda continua che subiamo. In Israele le persone sono preoccupate, sempre in apprensione per l’esistenza dei mostri là fuori. C’è paura a prendere un autobus, per timore che esploda. Si basa tutto sulla paura. E le persone diventano cieche di fronte all’odio. Rifiutare il servizio militare significa dire: ci sono persone dall’altra parte, persone che soffrono la nostra occupazione. Noi facciamo della loro vita una prigione e queste cose vanno dette. Nonostante le conseguenze, che conosco, che so e che ho deciso di assumermi. So che avrò un processo, poi il carcere, è una procedura consueta e talvolta più o meno lunga. Due ragazze della mia organizzazione sono ancora in carcere, ad esempio. È una lotta tra chi si ritira prima: noi o l’esercito. Si tratta di procedimenti stancanti e umilianti, ma siamo convinte di quello che facciamo.

La mia organizzazione è diversa da quelle del passato: usiamo i social network e cerchiamo di spiegare la nostra scelta chiedendo a tutti, Europa compresa, di aiutarci non solo invitandoci a raccontare le nostre storie, ma chiedendo ai governi di non finanziare la corsa militaristica di Israele. A proposito di Italia: il vostro paese fornisce all’aviazione israeliana aerei militari e organizza esercitazioni militari congiunte in Sardegna. Nel 2014, proprio nel corso dell’ultimo attacco a Gaza, due aerei M-346 per l’addestramento al volo, di produzione italiana, sono stati consegnati dall’Italia all’aviazione israeliana. Noi rifiutiamo le armi, voi piantatela di venderle a Israele e di partecipare all’occupazione dei territori palestinesi.