I rapporti tra India e Pakistan nelle ultime settimane sono precipitati verso i minimi della storia recente. Causa scatenante, l’attentato contro la base militare indiana a Uri, in Kashmir, che poco più di una settimana fa ha minato le relazioni già instabili tra i due principali stati dell’Asia meridionale, reciprocamente diffidenti sin dalla travagliata nascita dell’India e del Pakistan indipendente, nel 1947.

Quattro uomini armati sono penetrati nella base all’alba, uccidendo 19 soldati e ferendone a decine, prima di essere «neutralizzati» dalle truppe indiane. Un attacco che, secondo gli inquirenti indiani, ha una chiara matrice pakistana e rappresenterebbe l’ennesima provocazione mossa contro l’India, formalmente impegnata da oltre due anni – dall’inizio dell’amministrazione Modi – in un delicato processo di normalizzazione dei rapporti con Islamabad. Una «strategia binaria» giudicata ora dall’esecutivo di New Delhi assolutamente inefficace, e che sta lasciando il posto a una nuova linea di intransigenza e progressivo isolamento del Pakistan a livello internazionale.

Nell’ultima settimana il ministro degli interni Rajnath Singh e la ministra degli esteri Sushma Swaraj (a rappresentare l’India al Palazzo di Vetro a New York) hanno a più riprese bollato il Pakistan come uno «stato terrorista» colpevole di non opporsi alle cellule del terrorismo islamico autoctone responsabili, secondo l’India, di una diffusione del terrore in tutta l’area. Concetto ribadito con chiarezza dallo stesso premier Narendra Modi sabato 24 settembre durante un comizio, quando si è riferito al Pakistan come «l’unico stato che esporta terrorismo nella regione», annunciando ritorsioni politiche e militari.

A stretto giro, l’ufficio del primo ministro indiano ha annunciato che Modi non parteciperà al 19esimo summit della South Asian Association for the Regional Cooperation (Saarc, la più importante piattaforma politica dell’area formata da Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, India, Maldive, Nepal, Pakistan e Sri Lanka), in programma a novembre a Islamabad. Si tratta della prima volta dalla fondazione della Saarc (1985) che un leader indiano decide di disertarne un meeting, extrema ratio motivata da New Delhi come risposta alle «continue ingerenze nella politica interna e la diffusione del terrorismo da parte di uno stato». Citando le medesime ragioni, anche Afghanistan, Bangladesh e Bhutan hanno annunciato il proprio forfait per un summit che, a questo punto, probabilmente non si terrà.

Nella giornata di ieri i vertici dell’esercito indiano, in un’inusuale conferenza stampa, hanno rivelato che una serie di «attacchi mirati» lungo la Linea di Controllo – il «confine-cuscinetto» che divide il Kashmir indiano da quello pakistano – sono stati condotti con successo, facendo «molte» vittime tra le fila di «terroristi pronti a entrare in India», individuati grazie a rapporti di intelligence. Rivendicazione che il Pakistan ha negato, parlando di «propaganda» per oscurare le violenze dell’esercito indiano in Kashmir, ammettendo solo «normali scambi di colpi» tra le truppe schierate lungo il confine e la morte di due soldati pakistani.

Gli attacchi indiani – per gli analisti più assennati, escludendo gli ipernazionalisti dei media pro Bjp – rappresentano un «avvertimento» al Pakistan: l’India non teme lo scontro e intende farsi rispettare, ma non vuole esasperare uno scontro di nervi già teso.