Fino ad alcuni anni fa era il Mazar Hotel. Un immenso, vecchio edificio a un piano dai colori pastello, malandato, polveroso, labirintico, quasi sempre vuoto, ma pieno di fascino. Nella piscina esterna dall’acqua sporca, in estate sguazzavano i bambini con costumini improvvisati, tirati su da una cordicella. Poi è diventato la sede del consolato della Germania in Afghanistan, protetta da alte mura di cemento, torrette di avvistamento, sacchi di sabbia e filo spinato. Oggi è un cumulo di macerie.

Nella tarda serata di giovedì, intorno alle 23.30, Mazar-e-Sharif – capoluogo della provincia settentrionale di Balkh, a una manciata di chilometri dal confine con l’Uzbekistan – è stata scossa da un boato fragoroso, insolito in questa città, una delle più «sicure» del Paese. I talebani hanno attaccato il consolato con un veicolo carico di esplosivo, per poi ingaggiare uno scontro a fuoco con le forze speciali afghane e gli uomini della sezione «risposta veloce» della missione Nato Resolute Support, che qui stazionano nella vicina base di Camp Marmal, dove risiedono i circa mille uomini dell’esercito tedesco, da molti anni con la responsabilità della zona settentrionale dell’Afghanistan.

Le foto circolate ieri mostrano un cratere di alcuni metri di diametro, con un taxi risucchiato dentro, e tutto intorno i resti delle mura del consolato, sbriciolato, come molti degli edifici delle vicinanze. Il bilancio non è chiaro: secondo il comunicato della missione Onu, pare siano 4 le vittime e 128 i civili feriti, di cui 19 donne e 38 bambini. Sarebbero tutti illesi invece i 21 funzionari del consolato tedesco.

Vittime civili, ancora una volta, come risposta ad altre vittime civili: i talebani hanno rivendicato l’attentato presentandolo come una risposta all’attacco aereo statunitense del 3 novembre, quando 32 civili sono stati uccisi nei pressi della città di Kunduz in seguito a un intervento aereo, richiesto dalle forze speciali afghane, finite sotto tiro talebano insieme ai «consulenti» americani. Su quell’episodio ancora non c’è chiarezza.

Gli americani dicono che «molto probabilmente» la responsabilità è loro, ma che occorrono ulteriori indagini e verifiche, mentre le Nazioni Unite hanno avviato un’inchiesta. Per i talebani non c’è dubbio: è colpa delle truppe straniere, «e vale la pena ricordare che ne erano parte anche i tedeschi». Da qui la velocità della rivendicazione.

Con altrettanta solerzia gli studenti coranici hanno detto la loro sulla nomina di Donald Trump a prossimo presidente degli Stati Uniti, che rimangono il grande nemico dei barbuti, perché hanno rovesciato l’Emirato islamico nel 2001, continuando poi ad appoggiare il «governo fantoccio» di Kabul e a prolungare l’occupazione militare.

Ma i toni del comunicato ufficiale sono insolitamente morbidi. Donald Trump viene invitato a «ritirare tutte le truppe dall’Afghanistan», lasciando al popolo afghano il diritto di «costruire una nazione autonoma che interagisca con ogni altra nazione in un mondo in cui ognuno sia protetto dagli attacchi degli altri». Insomma, i talebani sperano che il presunto isolazionismo di Trump gli porti buoni consigli, e che l’imprenditore misogino e razzista, sospettoso verso tutti i fedeli musulmani, intenda mantenere le promesse della campagna elettorale, quando ha ripetuto: «Andiamocene dall’Afghanistan! I nostri uomini vengono ammazzati dagli stessi afghani che addestriamo, spendiamo miliardi lì».

Peccato che Trump sia inaffidabile. E che abbia già in parte corretto le sue parole, sostenendo che dopotutto «l’Afghanistan è vicino al Pakistan, una porta d’ingresso. E bisogna stare attenti con la questione nucleare». Anche Obama aveva promesso che avrebbe «riportato a casa i nostri ragazzi». Era più di otto anni fa. I soldati sono ancora lì.