«Fate arrossire gli intellettuali astratti», raccomandava Mao ai quadri del partito, in piena guerra sino-giapponese. È un buon consiglio anche per la filologia, che è cosa incruenta ma non pacifica. È il consiglio che sembra rimbombare a ogni pagina nell’ultimo libro di Luciano Canfora, Tucidide La menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza «i Robinson/Letture», pp. 362, euro 20,00).
Un libro – si è detto e si ridirà, prevedibilmente – che corona oltre quarant’anni di ricerche. È vero: sullo storico più ingombrante dell’antichità Canfora torna incessantemente fin dal Tucidide continuato del 1970. Ma parlare di coronamenti è fuori luogo, direi due volte fuori luogo: perché la ricerca proseguirà di sicuro, e perché in tanti anni essa ha saputo arricchirsi e mutare. Ovvio che Canfora non rinunci mai agli argomenti-chiave, fortissimi e spesso inascoltati, proposti già nel 1970. Ma non cogliere scarti, dietro una così tenace e lucida coerenza, sarebbe perdersi una lezione preziosa.
Ma vediamo, intanto, di cosa si tratta. Si tratta a conti fatti di una frase, che si legge nel cosiddetto «secondo proemio» tucidideo e che così recita: «mi capitò di trovarmi in esilio dalla mia patria per vent’anni dopo il mio incarico di stratego ad Anfipoli»; o, come rendono altri, «dopo la mia spedizione contro Anfipoli» (e già queste oscillazioni danno da pensare). Anfipoli è una località tracia nevralgica nello scacchiere sovrannazionale del conflitto Atene-Sparta: è attraverso colonie come questa che Atene controlla le risorse minerarie dell’area. Perciò, quando la guerra ormai si trascina, un leader spartano eterodosso, Brasida, attua un geniale «cambio di paradigma»: dà battaglia all’impero di Atene non in Attica, ma nelle sue più remote periferie settentrionali. Siamo nel 424 a.C., e proprio Tucidide è allora uno dei due strateghi responsabili dell’area (anche se non di Anfipoli). L’incarico si spiega benissimo: dal suo clan familiare, che comprende risoluti avversari di Pericle, egli ha ereditato lassù interessi finanziari ingenti, e dunque influenze politiche che lo rendono perfetto per il ruolo; lo storico, infatti, come spiega ora Canfora, non è proprietario di miniere aurifere, ma ne controlla la manodopera schiavile (le «risorse umane», se si preferisce il bon ton d’oggi). Questa è la sua forza. Quando Brasida fa sua Anfipoli è Tucidide che accorre. Non riprende la città, ma salva la località litoranea da cui partirà poi la riscossa ateniese. Tutto mostra che la sua azione fu tempestiva e meritoria.
Eppure, dopo Anfipoli, a Tucidide fu inflitto l’esilio: ce lo dice lui, a quanto pare; e soggiunge addirittura di essere stato a lungo esule in territorio spartano. Possibile? Perché fu bandito? E dove? E quando e perché poté tornare, rievocando peraltro il suo esilio come cosa lontana? Sul «secondo proemio» si sono costruite fin dall’antichità fragilissime ipotesi biografiche. Non vale la pena riepilogare le soluzioni ideate ad hoc, che sono tante e tortuose. Il punto è che non si tratta di mera biografia: qui è in gioco la natura stessa della storiografia tucididea; e Tucidide – scrive Canfora, netto – è «il politico ateniese cui dobbiamo l’invenzione della storiografia quale tuttora la pratichiamo». L’orgoglioso teorico della storia vista e vissuta diviene per questa via uno storico da tavolino; e uno sfacciato bugiardo, che racconta in dettaglio cose che non può sapere.
La contro-tesi di Canfora, corroborata negli anni da sempre più fitte prove, è che a parlare nel «secondo proemio» non sia Tucidide, ma il suo collega Senofonte. Collega anche in senso politico, dato il pedigree antipericleo di Tucidide, la cui opera gronda avversione alla «democrazia realizzata» (e pazienza se Tucidide, nella memoria dei più, è soprattutto l’autore dell’Epitafio di Pericle, frainteso quale «manifesto democratico»). Dunque, il filospartano Senofonte ebbe per le mani, editò e continuò la grande incompiuta di Tucidide. C’è Senofonte in quel che noi chiamiamo Tucidide, ma c’è Tucidide in quel che noi chiamiamo Senofonte, le cui Elleniche inizierebbero peraltro nel modo più strampalato se, con Canfora, non riunissimo ciò che la tradizione ha diviso.
Questa la contro-tesi, e a chi non ne conosce l’impianto complessivo è bene non anticipare nulla: sarebbe antipatico spoiling, visto che l’inchiesta è appassionante come poche e travolge nel suo procedere anche ostacoli gravosi come quell’esplicito «dopo il mio incarico di stratego ad Anfipoli» o «dopo la mia spedizione contro Anfipoli» (espressione da intendere in tutt’altro modo, come suggerisce Canfora oggi, o da espungere, come preferiva Canfora in passato). Si può consigliare di leggere insieme a questo Tucidide, per un quadro ancor più completo, l’ottimo saggio di Elisabetta Grisanzio, L’ultima pagina della guerra del Peloponneso (Sellerio, 2015); e si può, anzi si deve dire che gli argomenti dispiegati da Canfora sono così forti da mostrare quanto sia azzeccata la parola inglese per «prova»: evidence.
E l’«evidenza» su cui Canfora si fonda è ancor più luminosa per il fatto di venire in gran parte dal testo stesso di Tucidide; non solo o non tanto dalle sue pieghe, ma dalle sue caratteristiche più profonde e strutturali. E qui cogliamo la tonalità specifica di quest’ultima ricerca: essa muove soprattutto «dall’interno», restituendo alle pagine antiche quella chiarezza che non viene da sé, ma si conquista. Canfora incalza con domande spietatamente realistiche: come sa quel che sa, Tucidide? Come ottiene i documenti che impiega? A chi parla e perché, cioè in quale cerchia opera? Quanti scartafacci si celano dietro l’apparente lindore – frutto per lo più di traduzioni cosmetiche o forzature esegetiche – di tante sue pagine? Per questa via si fa piazza pulita di molte elucubrazioni complicate e gratuite. In filologia, come in ogni altra scienza, vince la tesi più economica: e questo è proprio il caso.
«Realismo»: ecco la lezione basilare. Alfonso Traina disse una volta che «classici sono coloro che hanno scritto per noi». Canfora ci ricorda costantemente che i classici – prima di diventare tali – hanno scritto per se stessi, e si sono parlati l’un l’altro, intensamente, e spesso a muso duro: dietro ogni classico più o meno eternato c’è anche un pamphlet vitale, battagliero e radicato nel suo tempo; c’è l’incandescente politica del momento: e la storiografia non la osserva di lontano, a esclusivo beneficio di noi immodesti posteri; la storiografia partecipa. Non ci deve fuorviare «l’acquisizione che durerà per sempre» (ktema es aiei) a cui Tucidide aspira con la sua opera. Lo storico che volle fare storia del presente opera innanzitutto nel suo presente. E ciò è tanto più vero nell’élite cui egli appartiene; un’élite che non si limita a dibattere, ma combatte e infine abbatte la democrazia; un’élite che non è fatta di «intellettuali astratti», ma di militanti. Ricollocare «il politico Tucidide» nel tempo e nell’ambiente che furono i suoi è davvero riconquistare l’evidenza, e ciò gioverebbe a tanti altri imbalsamati classici del periodo, per esempio al non meno politico Sofocle. In quel tempo e in quell’ambiente, peraltro, Tucidide aveva i suoi primi lettori e interlocutori, che dei suoi casi personali sapevano ben più di noi, illusi destinatari di un «per sempre» la cui gittata esageriamo senz’altro: questo rende ancora meno plausibile l’idea che egli abbia così sistematicamente e disinvoltamente finto di sapere, finto di vedere, finto di esserci, lavorando di seconda o terza mano in uno studiolo distante dai teatri di guerra.
Non scriveva ancora «per noi», Tucidide. «Noi libreschi», come dice ora Canfora, che non vediamo più l’evidenza: il tipo di patologia per cui Giorgio Pasquali coniò l’etichetta di «congiuntivite professoria». Contro la congiuntivite Canfora offre dosi robuste e salutari di realismo. Quello stesso «realismo» non consolatorio che due anni fa, nel suo Gli antichi ci riguardano, egli indicava come acquisizione permanente, è il caso di dirlo, degli studi classici ben praticati e ben insegnati. Oggi che si torna a discutere animatamente del liceo classico e della sua riforma, al grido populistico «meno lingua, più cultura», «meno storia, più antropologia», si rischia d’imboccare decisamente la via della consolazione. «Tanto sono classici», ironizzava Eduard Fraenkel: sono innocui, e raccontano belle favole.