L’anno augusteo è morto, assai dolcemente. A differenza dal bimillenario del 1937-’38, celebrato dal regime fascista con grande visibilità, quello trascorso non resterà memorabile. A opportuna distanza dalla sbiadita ricorrenza appare da Laterza un importante volume di Luciano Canfora, Augusto figlio di Dio («I Robinson/Letture», pp. 567, euro 24,00). Riprendendo e sistematizzando precedenti indagini, esso analizza l’emblematica carriera dell’erede di Cesare nel riflesso della tradizione storiografica. Secondo la «tipica parabola del potere scaturito da una rivoluzione», Augusto seppe creare «un nuovo ordine stabile, a prezzo della repressione di ogni tentativo di togliergli il potere», diffondendo del proprio governo «un’immagine di stabilità e serenità». Ma «le notizie sopravvissute nella tradizione bastano a farci capire che la facciata copriva un pericolo costante»: il libro insegue appunto le tracce della «memoria divisa» sulle guerre civili romane, e studia lo sforzo del princeps (non del tutto riuscito) per affermare la propria visione dei fatti. Vi era, dietro il volto impenetrabile e impassibile che tutti conosciamo dalla statua di Augusto rinvenuta a Prima Porta nel 1863, un grumo di violenze e di morte, di spregiudicatezza e di lotta politica. Violenza legata soprattutto agli anni giovanili: un carico rimasto, pesante, dalla giovanile «discesa in campo» nel 44 a.C. fino alla morte, sessant’anni dopo, quando il capoparte vittorioso su tutti i competitors era divenuto il «venerabile» (sebastos), il «padre della patria». La chiave per rivisitare senza miti la carriera di Augusto, superandone gli studiati oblii, è individuata nelle sue Memorie. Un testo certamente cruciale, ma del quale sopravvivono solo pochi frammenti: di qui l’indagine indiziaria di Canfora, volta a recuperarne la presenza nella storiografia conservata. Al centro non sono gli storici antichi più celebri, ma le Storie di Appiano di Alessandria (II secolo d.C.), superstiti tra l’altro proprio per la sezione sulle guerre civili romane (libri 13-17, a cura di Emilio Gabba, Domenico Magnino, Utet 2001): e si ragiona anche di Velleio Patercolo, o di Floro.
La prima parte del libro è dedicata a una minuta analisi della struttura, della formazione e della tradizione dell’opera di Appiano: grande attenzione filologica è rivolta alle forme del libro antico, puntando a comprendere il metodo di lavoro dello storico e a ricostruire, nei limiti del possibile, le fonti (per noi perdute) che egli adoperò. Tale materia, già affrontata da altri, viene riesaminata da Canfora dialogando più volentieri con gli studiosi passati che con i contemporanei, i quali si meritano talora taglienti critiche (per esempio, la recente edizione dei Fragments of the Roman Historians, 3 voll., Oxford 2013). Sono indagati così i materiali contemporanei agli eventi che Appiano mise a frutto, ad esempio, per il suo documentatissimo racconto delle sanguinarie proscrizioni volute dai triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido nel 43 a.C.: la «pagina nera» di Augusto (Appiano, Storie di proscritti, Sellerio 1990).
Gli anni turbinosi e violenti seguiti all’assassinio di Cesare generarono una grande quantità di scritti: una lunga battaglia per la memoria , combattuta anche dopo la fine degli scontri armati. La suggestiva ricostruzione di Canfora, ricca di acribia non meno che di senso politico, immerge il lettore nel conflitto che oppose i cesariani ai cesaricidi, e i cesariani tra loro: in quei mesi furono scambiate molte lettere e diffusi aggressivi pamphlet, che rivelavano gli spericolati voltafaccia compiuti dai protagonisti (compreso il vincitore finale) nella loro lotta senza quartiere. A distanza di tempo quel materiale divenne imbarazzante: come nel caso dell’epistolario di Cicerone (vittima dei triumviri), che fu pubblicato post mortem con opportune selezioni e fu usato da Augusto con spregiudicata abilità. Vi erano, sull’agonia della repubblica romana, anche resoconti storiografici, «narrazioni inconciliabili ed ovviamente faziose», divergenti nelle interpretazioni e nelle analisi delle colpe. Tra i testimoni sopravvissuti e scriventi c’era il cesariano Asinio Pollione (le cui Storie sono ricordate da Orazio in un’ode famosa: 2,11), o altri contemporanei come Seneca padre, dalle cui Storie, inedite per decenni e pure per noi perdute, derivano le numerose e poco favorevoli notizie su Augusto che il figlio Seneca (il filosofo) disseminò nella sua opera. Anche per la presenza di tali memorie non omologate, la carriera giovanile del princeps restò un argomento scottante: persino il racconto di un autore «integrato» come Tito Livio vi si confrontò con difficoltà.
Di fronte a ciò, urgeva per Augusto «arginare le pulsioni storiografiche e memorialistiche di alcuni ex-protagonisti o loro ammiratori», urgeva far prevalere una versione depurata e trionfale, urgeva rimuovere le ambiguità e tacere le violenze, presentandole come legali o camuffandole sotto la «necessità» della politica. E per far questo bisognava che le voci dissonanti fossero emarginate o tacitate. Augusto, da vero maestro della comunicazione, controllò la storiografia attraverso intellettuali a lui fedeli, ma anche in proprio. Le sue Memorie erano un’opera che «rivelava dettagli, svelava, a modo suo, arcana, metteva sotto luce positiva o negativa dei viventi, dei presunti o potenziali avversari, chiariva episodi». Un progetto delicatissimo: anche a distanza di anni, e nonostante la vigilanza del vincitore, le passioni restavano vive. Lo mostra il caso di un ignoto ex-proscritto, che nell’elogio funebre della moglie ricordava con rancore le sopraffazioni patite da Lepido, e il salvifico intervento di Ottaviano (Lidia Storoni Mazzolani, Una moglie, Palermo 1982). Giovava allora affermare una memoria «teleologica» del grande conflitto civile, che facesse convergere l’intero travaglio di un impero nella provvidenziale affermazione del pacificatore, del restauratore della res publica (!), del figlio di dio. Tale, in quanto figlio del divinizzato Cesare, s’intende: figlio devoto, la cui intera azione politica appariva come la legittima «vendetta» del padre e come l’assunzione di una eredità politica (per la verità, con esiti diversi rispetto al modello: Augusto non voleva farsi uccidere, e fu più accorto). Ma «figlio di dio» anche in quanto oggetto di culto, e diffusore di una «buona novella»: proprio un euanghelion, indirizzato ai popoli dell’impero, come narra un’iscrizione dell’Asia, valorizzata da Santo Mazzarino in una pagina memorabile.
Al figlio di dio rinvia il titolo del libro, accattivante e in qualche misura spiazzante, se il protagonista compare in primo piano solo oltre la metà del volume. E certo, la ricchezza dei temi e dei materiali discussi costituisce per il lettore un notevole impegno: la ricostruzione di opere perdute, della loro tendenza, dei loro materiali, è esercizio non facile. Esso chiede di orientarsi tra sottili analisi di frammenti, che recuperano molto dal poco che è superstite, di ponderare ipotesi e sottili inferenze, che sono argomentate per altro con chiarezza. Del resto la storia richiede anche immaginazione, e la temperie di quegli anni inquieti è resa con immediata evidenza, grazie anche alle proiezioni per analogia, caratteristiche di Canfora, e alle molte osservazioni di «scienza politica» che sollecitano consonanze e riflessioni. Così quando per spiegare l’acquiescenza degli intellettuali antichi verso i poteri tirannici si evocano i «pentimenti» espressi sotto il fascismo per alleviare condanne e confini, o quando si discute la tipologia del dissenso, derivato ora da «insipienza», ora da autentica urgenza, talora dalla fiducia «che il potere … comporti o tolleri margini (il che, del resto, è quasi sempre vero, pur se in certi limiti o con varianti da regime a regime)». Molte notazioni appaiono istruttive ben oltre l’oggetto d’indagine: per chiarire il peso della vulgata imposta da Augusto sui controversi avvenimenti della sua gioventù, si nota che «la codificazione di una falsità man mano imposta come verità (la cosiddetta ‘storia sacra’) … per cerchi concentrici produce amplificazioni sempre più deformanti». D’altra parte, si osserva, è inevitabile che si generi un sistema di menzogne, giacché «la politica è l’arte della parola non veridica: strumento che si considera legittimato dalla rilevanza, quando davvero è tale, dell’obiettivo in tal modo perseguito». Il che riguarda non solo gli antichi che si adeguarono alla propaganda orchestrata da Augusto, ma anche i moderni: i totalitarismi novecenteschi sono ancora un reagente produttivo per ripensare la rivoluzione romana.