Sergei Loznitsa lo scorso settembre ha portato per la seconda volta un suo documentario nel Fuori Concorso a Venezia. Austerlitz è un film in bianco e nero ma non è un film d’archivio, torna a ragionare sul ruolo politico della memoria scompaginando i luoghi comuni dell’Europa contemporanea sempre più pericolosamente incapace di pensare e di sentire oltre che di ricordare.

Come già in passato Loznitsa costruisce per le immagini una struttura rigorosa, una forma fatta di scelte e tagli essenziali, di punti di vista netti, di soluzioni tecniche raffinate fin quasi a diventare impercettibili, usando il Tempo come spazio operativo e critico del discorso che scrive i suoni e le immagini in un brillante teorema audiovisivo.

Con il nuovo film a soggetto girato in Lettonia ormai alle fasi conclusive della post-produzione (A Gentle Creature è per ora il titolo internazionale), il regista ucraino si è di nuovo generosamente prestato a uno scambio nel quale svela le fitte trame e i fili sottili che sostengono il suo nuovo saggio cinematografico.

Non succede spesso, ma in questo caso prima del film documentario c’è un libro (Austerlitz dello scrittore tedesco W. G. Sebald) . Quale è stata la prima idea del film e come è avvenuto il collegamento con il libro?

Ho iniziato a pensare a girare il film a Buchenwald. Mi ci sono ritrovato per caso: stavamo guidando da Monaco e Berlino, ci siamo fermati a Weimar e mi sono imbattuto in un cartello. Quando sono arrivato nel campo, dentro il crematorio, ho sentito che non potevo restare là come un turista. Sembrava di essere in un racconto di Kafka: ricordi quel testo in cui un soldato mostra a uno straniero i macchinari per la tortura? Si trattava dello stesso genere di esperienza. La domanda era: che ci faccio qui? Che cosa ci fa tutta questa gente? Che cosa cerca? E poi: come posso stare qui, proprio nel luogo in cui così tante persone sono state uccise? Sono luoghi attentamente e perfettamente progettati, è una delle prime cose che ho notato. Per me è strano: in Unione Sovietica nessuno ha mai pensato a progettare tanto accuratamente i campi per i prigionieri. Di solito li allestivano in vecchie chiese, nei monasteri o nella foresta: costruivano baracche direttamente sulla terra battuta, ma nessuno ragionava su come dovessero essere fatte rispetto al loro impiego, su quale dovesse essere la loro forma in funzione dell’uso che se ne sarebbe fatto; meno che mai ci si poneva domande su quale dovesse essere il loro aspetto estetico. Al contrario quando osservi i campo di sterminio tedeschi inizi a pensare all’estetica dello sterminio e all’estetica delle strutture per lo sterminio, il che è davvero strano. È questo il collegamento con Sebald: lui parte proprio dallo stesso tipo di idee su queste strutture, su come le costruivano e su come e quanto questo sia collegato con l’industrializzazione. Quando ho iniziato a pensare al film, al suo significato e al suo titolo, non ho avuto dubbi: il titolo del libro mi è venuto subito in mente.

Mi pare che questo sia il suo film in cui più apertamente, più esplicitamente ci si concentra sul legame tra tempo e memoria collocandolo nell’Europa contemporanea. Nel suo Austerlitz sembra ci sia una vita sospesa senza passato e senza futuro, nella quale niente ha un senso: quasi la dannazione per una nazione universale costituita interamente di turisti.

La domanda è seria e mi spinge a porre ora a me stesso altre domande altrettanto serie.

Primo: come si fa a preservare la memoria? Non farne semplicemente un erbario, una collezione di cose secche, di cose morte

Secondo: è davvero possibile condividere un’esperienza con altre persone? E poi: come riuscire a non profanare questa esperienza e questa memoria? È molto facile cadere in errore e diventare dei profanatori. Credo sia impossibile fare in modo che altri sappiano cosa sia accaduto in quei luoghi e quali sentimenti abbiano avuto le persone da entrambi i lati, mostrando tutto, spiegando tutto. Sono convinto che molti visitatori non capiscano niente: guardano certo, ma il loro è solo uno sguardo superficiale. Il fatto in sé non ha alcun significato, la quantità di persone uccise è solo un numero, si tratta di statistiche. È qualcosa che semplicemente non si può immaginare.

Per afferrarne il sentimento devi fare un film, una poesia o qualcosa del genere: un dispositivo, un artificio che trasformi le tue emozioni. Qualcosa di simile potresti farlo guidato da un rito, ma dovresti essere ancora dentro la vecchia cultura, dentro la tradizione. Il modo in cui la cultura moderna tratta certe emozioni ha più a che fare con il nascondimento, l’elisione; si tratta di obliterare l’emozione con l’immagine. E questo è quello che secondo me succede oggi in luoghi come il campo di sterminio divenuto museo: quel che si offre non è conoscenza, tutto si concentra nell’atto di mettersi in scena.

A proposito dello stile del film, della sua forma, Austerlitz mi ricorda di un suo film precedente, Landscape, quasi come fosse un controcampo o un piano rovesciato di quello. Landscape è tutto fatto di panoramiche e questo invece è fatto esclusivamente di inquadrature fisse, quello era girato a colori e questo è in bianco e nero. Tutti e due sono film fatti ascoltando e osservando un gruppo eterogeneo di persone di passaggio, tutte raccolte nello stesso luogo circoscritto, ottenendo poi da questa osservazione e da questo ascolto lo spirito, l’idea sintetica di una nazione. In Landscape c’era anche lo stesso trucco che ho visto nel finale di Austerlitz per nascondere il taglio di montaggio (usare il passaggio di una persona proprio davanti l’obiettivo per nascondere lo stacco).

Quel trucco l’ho usato perché mi sarebbe piaciuto riprodurre la sensazione esatta che avevo ricevuto guardando uscire da quel cancello la folla, una quantità enorme di persone; sfortunatamente però in quel momento avevo esaurito la memoria della camera. Questa rumorosa, pittoresca, internazionale folla era uscita tutta insieme, sembravano tutti molto contenti. Mi sarebbe piaciuto cogliere lo stesso momento in un giorno diverso, ma non mi è riuscito. Allora ho provato a ricostruire la sensazione attraverso il montaggio. Era strano: sembravano tutti contenti, come se si lasciassero dalle spalle qualcosa di pesante. È una reazione psicologica, una cosa del tutto spontanea. In questi luoghi le persone incontrano la morte, o comunque qualcosa che per loro rappresenta la morte, e in qualche modo toccano questo orrore, questa zona incognita, un buco oscuro che ti attira a sé. Per le generazioni passate era più semplice, avevano la religione, e la morte era definita dentro questa cornice. In India è ancora così: il rapporto con la morte è diretto, bruciano i corpi, è un’antica tradizione, un faccia a faccia quotidiano. Nella nostra civiltà moderna invece ci ritroviamo in un mondo fasullo dove tutto è attraente e sfavillante e pretende di essere pure gradevole. Penso che sia proprio in luoghi come Sachsenhausen (n.d.r. uno dei due campi dove è stato girato il film) che questa dimensione nascosta – il modo che le persone hanno di fronteggiare e di trattare la morte – si renda visibile: come il riflesso di un riflesso. È questo che cerco di cogliere.

A proposito della scelta di restare per tutto il film un punto di vista immobile, quale idea c’è dietro? Come ha deciso di lavorare?

In realtà ho anche provato a girare qualche ora con la camera in movimento ma non ha funzionato. Quando l’obiettivo si muove il nostro occhio tende a rintracciare i corpi che si muovono alla stessa velocità e allora ci diciamo: quello è l’elemento importante. Così funziona il linguaggio del cinema. Volevo evitare proprio questo, che lo spettatore pensasse che qualcuno fosse più importante degli altri. In questo film l’elemento più importante per la composizione dell’inquadratura è l’architettura: in alcuni momenti ti accorgi che l’equilibrio del quadro è più condizionato dalle strutture di quanto non lo sia dalle persone. Non voglio però che sia troppo evidente. Abbiamo scelto dove posizionare la camera in funzione delle strutture architettoniche, di come erano pensati e costruiti i luoghi. Volevo descriverli lentamente, non mostrando tutto e subito, ma lasciando una grossa parte dell’orizzonte invisibile e incognita. Si vede il parco intorno, poi l’ingresso, dove la gente passeggia, poi il cancello – e qui iniziamo a capire di che luogo si tratta -, poi ancora qualche immagine dell’interno di una stanza, una finestra, di nuovo le persone; solo dopo trentacinque, quaranta minuti c’è la prima inquadratura più aperta.

Un’altra linea di lavoro seguiva il percorso delle visite guidate. Tutte le guide si basano su un canovaccio costruito intorno a una sorta di drammaturgia: seguendo la dinamica della percezione emotiva, lasciano per ultimo l’orrore più esplicito. Iniziano con la descrizione della vita quotidiana; il racconto dello sterminio è solo alla fine della visita, ne è il culmine. L’ultima cosa in assoluto che raccontano è il modo in cui venivano trattati i cadaveri. L’apice è lo sterminio, il forno crematorio. Sono due parti su tre, una specie di sezione aurea.

Volevo introdurre le voci delle guide, ma non dal principio, perché altrimenti sapevo che lo spettatore avrebbe subito cominciato a seguire quello che dicevano. Volevo anche che fosse un ascolto frammentario, l’ascolto di pezzi che, in quanto sospesi e staccati dal resto, risultassero un po’ anche ridicoli. Così ho introdotto la prima voce intorno alla mezz’ora.

Sono voci ottenute al doppiaggio vero?

Abbiamo registrato tutto in presa diretta, ma poi abbiamo invitato in studio alcune guide e abbiamo registrato anche un doppiaggio. Ho lavorato con loro come fossero attori, perché era impossibile mettergli addosso dei microfoni mentre giravamo. C’erano troppe guide da seguire contemporaneamente e non avevo il microfonista con l’asta perché avrebbe attirato troppo l’attenzione. Ho scelto la via del doppiaggio perché volevo un suono di buona qualità.

Torniamo all’inizio del film. Non siamo ancora all’ingresso. Prima di entrare, ci troviamo nel parco davanti ai cancelli, dietro i cespugli, dall’altra parte vediamo alcune persone passeggiare. Sembra una dichiarazione sulla scelta del punto di vista in questo film: non stare in mezzo agli eventi, al centro della scena, ma osservare dalla distanza.

Sì, è come dice: mi piace stare fuori, lontano. Certo, è una dichiarazione quella. Il modo in cui inizi è il modo in cui inviti a guardare le cose, per questo è importante. È il modo del regista di provare a cambiare un po’ lo sguardo dello spettatore anche, il suo modo di guardare il mondo. In questo incipit non c’è niente che ti dica dove ti trovi né dove ti ritroverai nel resto del film. Abbiamo aggiunto a questa breve sequenza il suono del mare, lo sciabordare delle onde e i gabbiani ma non sono sicuro che gli spettatori se ne accorgano conspaevolmente.

Sappiamo quanto musicale sia il modo in cui pensa e pianifica i suoi film. Qual era questa volta il diagramma, la partitura musicale che aveva in mente e qual è stato il lavoro con Vladimir Golovnitsky, il fonico con il qual collabora ormai da quasi un decennio?

La musica è dentro la mia testa. C’è una battuta sui russi che dice che qualsiasi cosa si mettano a fare, hanno sempre in testa il kalashnikov. Forse potrei scegliere un altro destino, un’altra professione, il compositore per esempio.

Lei è un matematico dopo tutto.

Certo, la base è matematica e certo, abbiamo costruito una struttura. Una struttura perfettamente simmetrica, graficamente parlando. C’è l’armonia dentro. Il suono funzione per opposizione: più attivo dove l’immagine è più passiva, più passivo dove l’immagine è più attiva. Qualche volta poi c’è come un crescendo quando arriva l’azione: all’inizio per esempio, quando vedi arrivare le persone al cancello, abbiamo aggiunto, aggiunto, aggiunto suono arrivando quasi al chiasso. Sempre un po’ più del naturale. Poi, il silenzio, e in questo silenzio qualche elemento isolato: passi, brusio, qualche rumore indecifrabile prodotto dai turisti. In mezzo ci si trova pure qualche scherzo: per esempio il momento del combattimento di uno dei turisti con la mosca. Non c’è solo questo tipo d’ironia però: ho scaricato centinaia di suonerie per cellulare e poi ne ho scelta una in base al luogo e alla persona alla quale l’ho abbinata. È la Quinta Sinfonia di Beethoven che era la preferita da Hitler. Così questa musica è diventata la suoneria del telefono di un turista anonimo che passa, e zac! Il film è pieno di questo genere di accenni, di sfumature, una trama leggera, un po’ come la poesia.

Volevo avere molte voci, lingue diverse, ma che tutto fosse astratto, non intelligibile, senza significati precisi. È stato difficile destrutturare le voci, aggiungerne una e intrecciarla con un’altra e fare in modo che si distorcessero a vicenda. Babilonia: una turba di voci e alla fine non si capisce niente, sono solo suoni. È stato un lavoro difficile per Vladimir: trovare il modo di farlo e di farlo in modo che non fosse noioso. Mi sono seduto accanto a lui e ho ascoltato, limitandomi a fare qualche commento. È un genio, ha un fuoco dentro. Sta lavorando con me anche sul nuovo film, e i suoi suggerimenti sono formidabili. Lo sentirà presto.

Ha girato in bianco e nero?

No perché giravo in digitale, ma penso sempre in bianco e nero, è la mia impostazione mentale già prima d’iniziare a girare. Ho pensato di usare anche materiali fotografici d’archivio, ma appena ho aggiunto la prima immagine ho subito capito che era un’idea stupida, una cosa impossibile. Le cose vere uccidono immediatamente quelle false che abbiamo visto prima. È anche una questione etica.

La specifica ironia che mette nei suoi film, sembra un’ironia tragica.

La mia ironia è un modo per difendermi, una strategia difensiva. Se devi andare all’inferno, vai fino in fondo. È quel che faccio coi tutti i miei film, ma appunto mi serve metterci un po’ d’ironia.

In questo film quel che resta fuori dell’inquadratura sembra essere quasi tanto rilevante quanto quello che sta dentro. C’è una complicata dinamica degli sguardi: noi guardiamo i turisti che guardano qualcos’altro che noi non possiamo vedere. La maggior parte del mondo è fuori dell’inquadratura.

Osserviamo il modo in cui alcune persone osservano qualcosa che non vediamo direttamente ma che intuiamo dal riflesso che cogliamo sui loro volti. Mi sembra sia impossibile guardare in questi luoghi della memoria. Per me sono luoghi vuoti. È ridicolo fissare un luogo vuoto.

Tornando sull’argomento del film, mi pare che questo sia anche un film saggio su come la Storia si trasformi in narrazione.

Penso di sì. Il tempo sposta le cose lontano dal nostro presente. D’altra parte le precipita in un inconscio collettivo. Si potrebbe chiamare folklore. È molto pericoloso quel che capita quando non trasformiamo la Storia in mito o in folklore: se non modifichiamo quel che ha prodotto il male e l’orrore possiamo aspettarci che quello stesso male e quello stesso orrore tornino presto. Viviamo in un mondo visivo: il modo in cui una persona si veste è una dichiarazione, anche quando lo fa all’interno di un luogo come questo; è sempre una dichiarazione. Ci hanno pensato queste persone oppure no? Non importa. Quello che queste persone si sono messe addosso per venire a visitare questo luogo mostra che non capiscono. Bene, ci sto, ma il fatto è che la storia di questo sterminio ha radici profonde e ancora oggi ci troviamo davanti le stesse questioni. Così questo buco nero, questo luogo oscuro e pericoloso oggi per noi non è più così oscuro e pericoloso e anche il rispetto per le vittime non è più così alto.

Sembra che alle guide manchi del tutto la cornice di riferimento, la prospettiva sull’orizzonte nel quale sono accadute le cose che raccontano ai turisti. Mi sembra che nel film ci sia anche una critica al modo in cui raccontano questa storia, c’è una forte ironia mi pare.

Non voglio fare una critica: volevo solo condividere il mio disagio, lo spaesamento dentro quella situazione. Non tutte le guide sono come quelle che ho messo nel film. Ci sono guide che cercano di essere il più gradevoli possibile raccontando i fatti con il linguaggio della gente, che cercano di semplificare, di raccontare qualche storia buffa, di trovare gli elementi più accattivanti, che cercano di organizzare il loro racconto in modo che sia il più soddisfacente possibile. Ci sono altre guide che si dimostrano intelligenti, alcune delle loro dichiarazioni sono di alto livello, tanto che qualcuna l’ho anche usata nel film. Per esempio, mentre stanno visitando i forni, una guida dice: “solo quelli che avevano perso la speranza potevano combattere e sopravvivere”.

L’unica cosa che posso consigliare di fare se si va a visitare uno di questi luoghi è cercare di essere soli, niente folle. Solo così si può stare con se stessi, pensare, abbandonarsi, nudi, alla propria immaginazione e alla memoria del sangue.