E così anche Günter Grass ci ha lasciato. La sua voce critica e la sua vis polemica, a dire il vero, non echeggiavano più, da qualche tempo, con la stessa frequenza che in passato. Il sentimento quasi di un lento andarsene e come di un graduale distacco dall’arena pubblica per ritrovare una natura e un linguaggio nella loro forza piena e gratificante si poteva forse cogliere in uno dei suoi ultimi testi narrativi, Grimms Wörter (Le parole dei Grimm, 2010), uno splendido scritto sostenuto dall’amore per la lingua ma anche un libro dell’addio: un prepararsi al congedo, un concentrarsi sull’essenziale («Da vecchi ci si concentra sull’essenziale, e si impara a osservare la natura», aveva confessato in una recente intervista).

Se ne va con lui un intellettuale controverso, scomodo nel senso pieno del termine, un tedesco che è stato considerato a lungo come una sorta di «coscienza morale» della Germania, invitata a fare i conti col proprio passato e a non nutrire illusioni – a ridosso della caduta del Muro di Berlino – nei confronti di un processo come quello della riunificazione tedesca gestita dal cancelliere Kohl, salutata con impietoso scetticismo come rischio di una colonizzazione capitalistica dell’Est europeo nel Discorso di un senza patria (1990) e in romanzi come Il richiamo dell’ululone (1992) ed È una lunga storia (1995). Se ne va con Grass un polemista che ha fatto della sua battaglia morale contro la rimozione, contro l’«oblio» (del passato nazista, della «colpa», delle inadeguatezze) e del dovere della memoria (per dirla con Primo Levi) un pilastro del proprio impegno esistenziale.

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L’ora zero

L’engagement di Grass si è delineato già sul finire degli anni Cinquanta, allorché s’è avviata la sua notorietà. Sono gli anni della sua adesione alle istanze di rinnovamento culturale e morale propugnate dal Gruppo 47 (impegnato nella ricerca di una nuova sensibilità poetica e nella lotta contro militarismo e nazifascismo) e al quale egli dedicherà nel 1977 il racconto che ha per titolo L’incontro di Telgte. Sono gli anni della pubblicazione della Danziger Trilogie («Trilogia di Danzica», composta fra il 1959 e il 1963 e costituita dal Tamburo di latta, da Gatto e topo e da Anni di cani), nella quale egli rileggeva la storia tedesca a partire dal ricordo della sua città Natale, Danzica, l’odierna Gdansk polacca, la sua Heimat perduta , schierandosi contro la restaurazione di Konrad Adenauer e osteggiando la «fuga dalla storia» praticata ad esempio mediante la teoria dell’«anno zero» (o dell’«ora zero»), mediante il forzoso azzeramento dell’esperienza del terrore che era ancora ben presente nelle menti: «Si cercava», scrive in un altro passo del suo dialogo a distanza con il Nobel giapponese Kenzaburo Oe, «di dare alla fine del terrore il significato di ora zero, come se si potesse ricominciare tutto da capo, come se bastasse rimuovere le macerie, come se fosse consentito cavarsela impuniti».

A partire da queste premesse, lo scrittore danzichiano ha maturato negli anni successivi anche un proprio, più esplicito coinvolgimento nella lotta politica, alternando fasi di aperta militanza nelle file del Partito socialdemocratico tedesco (sostenendo fra l’altro la politica del futuro cancelliere Willy Brandt) a momenti di maggiore distanza, nei quali si è fatta più pressante la sua vena narrativa. E insieme non ha mancato di dar prova della sua straordinaria versatilità artistica, di muoversi agevolmente nei differenti registri linguistici e negli stili dei vari io-narranti testimoniati dalla sua opera.

Sempre convinto di poter agire sulla realtà in virtù della parola e della scrittura, egli ha ritenuto di dover prendere la difesa degli sconfitti e dei dissenzienti, ricorrendo per tutta la vita più alla polemica e alla «rabbia» che alle schilleriane «grazia e dignità». Ha ritenuto di dover comportarsi da «libero denigratore» della propria patria, secondo la formulazione da lui usata dialogando nel 1995 con Kenzaburo Oe, scrittore poco più giovane di lui che aveva conosciuto la piaga dell’imperialismo nipponico e delle sue nefaste conseguenze e al quale ha confessato: «Continuiamo a invecchiare, caro amico, eppure siamo rimasti dei bambini segnati. Entrambi abbiamo dovuto imparare, per vie simili e grazie alla nostra memoria da scrittori, a sopportare Lei il Suo Giappone e io la mia Germania. Siamo abituati a rimanere in disparte e a firmarci per così dire come liberi denigratori della nostra patria. In questo caso la critica è la massima espressione dell’amore verso il nostro paese. Ecco perché Le scrivo: per via di tutto quello che ci accomuna, e anche perché credo e spero che le nostre lettere possano rivelarsi di interesse pubblico».

Ambiguità di un’epoca

Personalità complessa e prodigiosamente vitale (pittore e grafico, scultore, poeta, autore di testi teatrali, saggista, narratore e oratore politico), a partire dal Tamburo di latta, il suo primo bestseller, Grass finì così al centro dell’attenzione internazionale, catalizzando gli amori e gli odi della critica a ogni sua prova letteraria, sino a ottenere il Nobel per la letteratura nel 1999, anno in cui ha pubblicato la raccolta di racconti Il mio secolo. Molti i temi che via via erano intanto finiti al centro del suo osservatorio. Se nella cosiddetta «Trilogia di Danzica» egli aveva denunciato le ambiguità dell’era adenaueriana, nelle opere successive egli ha tematizzato la distanza dal velleitarismo dei movimenti di contestazione extraparlamentari in Anestesia locale (1969), ha espresso le sue riserve nei confronti della politica di lento riformismo della socialdemocrazia in Dal diario di una lumaca (1972), ha portato l’attenzione sull’emancipazione femminile nel superbo romanzo-fiume Il rombo (1977) e ha riflettuto sulla funzione sociale degli scrittori e della letteratura nell’Incontro di Telgte (1979).

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I tabù svelati

Negli anni Ottanta ha poi spostato la propria attenzione sull’impegno ecologistico e sulla possibilità di una catastrofe ecologica o magari di un disastro nucleare o sul calo demografico della popolazione europea e sull’impoverimento del terzo mondo (in romanzi come Parti mentali, La ratta e Mostrare la lingua, oppure nella serie di disegni Legno senza vita). E in anni a noi più vicini ha riaperto il discorso sul passato, affrontando anzitutto il tabù delle vittime tedesche della Seconda guerra mondiale nel Passo del gambero (2002) e avventurandosi nella recente tardiva, clamorosa e controversa rivelazione autobiografica (in Sbucciando la cipolla, 2006) sui propri brevi trascorsi adolescenziali nelle file delle Waffen SS. Quella confessione autobiografica – accolta, non solo in Germania ma anche in Italia e nel resto d’Europa da attacchi personali che lo lasciarono sconfortato, anche se molti amici non lo abbandonarono) – lo fece tornare più che mai nel mirino della critica e del pubblico internazionale, confermando – quasi paradossalmente – l’autenticità del suo impegno civile malgrado le ombre e le cadute. Si trattò di un testo, anch’esso, in cui – tutto sommato – lo scrittore danzichiano confermò di voler continuare a restare sulla breccia per denunciare senza estremismi le storture della sua amata e odiata Germania o per leggere il presente in controluce facendo tesoro delle esperienze passate, adottando – tutto sommato – la scrittura anche come una forma di terapia dello choc che l’impatto con la storia produce.