Lea l’abbiamo conosciuta assieme – Rossana Rossanda e io – e così, per qualche ragione che in seguito ci fu più chiara, si instaurò fra di noi un rapporto particolare. Voglio dire: una relazione a parte rispetto a quella derivata dal fatto che avevamo tutte e tre in vario modo a che fare con lo stesso giornale. Si potrebbe dire che fra noi, come spesso capita in un luogo di lavoro, s’era aggiunta un’amicizia personale. E però non è tanto vero, perché un’amicizia presuppone una frequentazione attiva, che in realtà non c’è mai stata per via delle distanze geografiche e dei rispettivi affanni. Così come non c’è stata, almeno per me ma penso anche per Rossana che pure proveniva dagli studi dell’arte, un dialogo «professionale». Io anche venivo da quel «settore», perché fino a quando non mi sono imbattuta nel Pci facevo ( o meglio, tentavo di fare ) il pittore. E invece no, perché le scoperte artistiche di Lea erano talmente lontane dal mio orizzonte dall’impedirmi anche solo di aprire un discorso. Credo che anche per Rossana la «body art», con cui Lea aveva allora appena appitonato il dibattito culturale, non fosse cosa che la appassionava. O forse no, sono io che non lo so. E però vorrà pur dire qualcosa che di questo assieme non abbiamo mai parlato.

IN EFFETTI FU LUIGI – come Lea scrive in questa intervista-biografia appena uscita (L’arte non è faccenda di persone perbene, conversazione con Chiara Gatti, Rizzoli, pp. 144, euro 18) – ad avere la straordinaria idea di chiederle – il manifesto quotidiano stava per uscire – se avesse avuto voglia di collaborare. Una proposta che meravigliò molto Lea: ma come, un foglio di battaglia politica così militante, si interessava all’arte contemporanea? Sì, se ne interessava. Per fortuna, e questa è la ragione per cui il giornale ha avuto sempre della politica un’idea meno meschina di quello che correntemente si pensa sia la politica.
Lea non era comunque affatto estranea all’avventura complessiva del giornale. C’era stata subito affinità con la nostra battaglia e poi – scrive – «mi piaceva far parte della macchina». E infatti racconta con affetto e nostalgia le stanzette di via Tomacelli e chi le abitava, l’hotel Plaza, elegante e demodé, subito al di là del Corso, nella cui grande hall andavamo a prendere un tè quando dovevamo parlare con un po’ di riservatezza. Era anzi così coinvolta nelle sorti della nostra impresa che una volta, preoccupata, venne a dire a me e Rossana che aveva deciso di scrivere nel suo testamento che i suoi beni dovevano andare al manifesto.

Più straordinario fu però che abbia accettato di scrivere sulle nostre pagine; e che abbia continuato a farlo per mezzo secolo. Una bella stravaganza, perché contemporaneamente lei scriveva sulle più sofisticate riviste di critica d’arte, cosi’ come su quotidiani di ben maggiore tiratura. Perchè Lea Vergine è stata, ed è tutt’ora, una delle più autorevoli critiche d’arte, e – non capita sempre a chi si occupa di questa materia – anche una delle più lette. Il libro sulla body art che la lanciò nel 1974 – Il corpo come linguaggio – fu quasi un best seller internazionale. Era accaduto perché Lea era riuscita a far capire che quanto era sembrato solo un pretenzioso scandalismo era in realtà un modo per cercare di creare un rapporto fra l’arte e il proprio corpo seguendo il ritmo del tempo, un modo «di rimettersi al mondo presentandosi al pubblico attraverso il corpo». Una nuova maniera di creare sculture, queste viventi.
Non era – non è – facile rimettere a fuoco lo sguardo di un fruitore di quadri dopo che da sempre è stato abituato a vedere in altri modi.
La storia dell’arte dai Bizantini a Giotto e poi dai naturalisti agli impressionisti, agli espressionisti, i cubisti, agli astrattisti, è scandita da questi salti traumatici. In questa ultima stagione a cavallo del secolo il salto è stato ancora più spericolato.

SE LEA È RIUSCITA a farsi seguire – il libro che ora ha scritto consente di capirlo anche meglio – è perché lei stessa ogni volta vive su di sé lo stravolgimento di quella «emozione quasi dolorosa», «disorganizzante», quel «terremoto» che l’arte può farti sentire quando di fronte a dei segni o dei segnali vieni «posseduto da qualcosa di ineffabile e intangibile». Accade quando l’arte produce un «rivolgimento interiore», quando ti costringe «a confrontarti con il tuo lato oscuro».
In questo suo libro non c’è in realtà molto di critica d’arte. C’è anche molto altro. Molto. Intanto un racconto della Milano che tutti abbiamo amato, quella di quando questa città divenne davvero il centro culturale e politico fondamentale della modernità italiana, come provano del resto i nomi di tutti, tantissimi, gli intellettuali che Lea vi incontra ( e che cita quasi meticolosamente) quando approda nella capitale del nord, ancora giovanissima, bellissima, intelligentissima. Sono pagine preziose per ricostruire quell’epoca. Aihmè poi tramontata.

MA IN QUESTA AUTOBIOGRAFIA in forma di intervista c’è sopratutto la storia della sua infanzia ed adolescenza napoletana. Privilegiata ma in realtà durissima, per via di come le strutture di classe si sono incrociate con le passioni, di come l’abbiano privata di una formazione normale, e anzi ferita per via delle contraddizioni che hanno segnato gli affetti. Ne conoscevo solo schegge, e mi appare anche più un miracolo che lei sia venuta fuori così.
Una sola cosa rimprovero a Lea per questo suo libro. Di Enzo Mari, suo marito, scrive una sola riga: «Una pietra. Indispensabile». Capisco che è una frase lapidaria. Ma siccome so – lo si vede, anzi lo si palpa anche adesso che hanno 80 anni – che fra loro c’è stato e c’è un grandissimo amore, avrei voluto saperne di più.
Devo a questo punto ancora spiegare come mai sia durato il rapporto personale che ha legato me e Rossana a Lea attraverso questo mezzo secolo in cui in realtà ci siamo viste poco (e però se capito a Milano mi piace andarla a trovare. Non per abitudine sociale, ma perché mi piace davvero parlare – di me e di lei oltreché del mondo). Se leggete questo libro che spiega come è Lea, credo capirete il perché.