Tra le molteplici iniziative dedicate alla riscoperta dell’avanguardia russa e sovietica (come è giusto che sia dato l’immenso continente ancora inesplorato che essa rappresenta), la mostra a Villa Manin di Passariano (Udine), che prosegue ancora per tutto il mese, si segnala per intelligenza e fertilità, per avere scelto alcune chiavi rivelatrici. Esse sono chiaramente parte del percorso che, negli ultimi mesi di sovrintendenza affidata a Piero Colussi, lo spazio espositivo ha sottolineato, rivolgendosi al territorio enorme del Novecento, con il suo intreccio tra arti, lasciando ad altri l’attenzione a quanto precede e all’odierna creazione artistica. La forte presenza di riferimenti cinematografici nelle mostre sin qui realizzate (da Man Ray a Capa) è quindi nella fondamentale vicenda artistica di quel secolo, e non certo in un «pallino cinefilo» del sovrintendente, giunto qui alla sua «terza vita», dopo le attività cineclubistiche di Cinemazero (già segnate da interessi musicali verso il jazz e il rock) e delle Giornate del cinema muto, e i successivi ruoli politici (che mai dimenticarono il cinema, non certo per spirito di lobby ma perché esso segna con particolare forza il nostro rapporto con la politica stessa).
Si tratta in realtà di una doppia mostra, e l’intreccio tra le due parti, con i due piani dell’allestimento, rende efficace ciò che è nato da una rete di accordi con altre istituzioni museali. Al piano d’ingresso di Villa Manin s’articola propriamente la mostra di dipinti e altri oggetti artistici (manifesti, tazzine ecc.) intitolata Avanguardia russa da Malevič a Rodčenko. Capolavori dalla collezione Costakis del Museo Statale di Arte Contemporanea di Salonicco curata da Maria Tsantsanoglou e Angeliki Charistou, con un catalogo cui hanno contribuito John E. Bowlt e Nicoletta Misler. Al piano superiore c’è la mostra fotografica di Aleksandr Rodčenko, che trae spunto da una precedente esposizione con catalogo del Palazzo delle Esposizioni di Roma. Rodčenko, pittore e fotografo, fa quindi da unificatore della doppia mostra, non certo solo perché presente in entrambe ma perché il rapporto con l’immagine fotografica e cinematografica diventa il filo forte della vicenda artistica dell’avanguardia russa.
Certo, nessuno ignorava la grandezza del cinema russo e sovietico (di cui negli eventi collaterali della mostra, curati con La Cineteca del Friuli, vengono proposti in videoproiezione alcuni capolavori). Ma sempre più scopriamo come esso sia disseminato di presenze da riscoprire ulteriormente, e non certo in chiavi postmodernisticamente inconcludenti alla Greenaway. La vera risposta la dà all’oggi proprio la vitalità ancora ignorata del passato: la fotografia della donna sulla scalinata realizzata da Rodčenko nel 1930 (quindi in pieno consolidarsi di quell’epoca stalinista che allo stesso tempo escluderà – con eliminazioni fisiche – e includerà – ricalcandola nel realismo socialista – l’avanguardia) ci appare oggi il vero capolavoro-remake dell’immagine canonica della Corazzata Potëmkin. L’infante lì terrorizzato nella culla che precipita sulle scale è qui raccolto, oserei dire con spirito di salvataggio dreyeriano, dalla donna che sale le scale. Ascese e discese ricorrono d’altronde anche negli scritti di Rodčenko sull’arte, e ci piace immaginare che poi l’Ascesa del film di Larisa Šepit’ko diventi il punto d’arrivo segreto di questa vicenda: e parliamo appunto di una grande cineasta che partì dal rapporto con Dovženko, da Rodčenko fotografato in un ritratto che fa il paio frontale con quello della sua attrice e moglie Julija Solnceva, «rivale» proprio della Šepit’ko e poi continuatrice dell’opera di Dovženko in un caso unico di autorialità sostitutiva (più prolungato e intimo che in un Jack Cardiff che compie il film più personale di John Ford). Con la presente foto di Kulešov ci sarebbe piaciuto vedere la foto, che si sa realizzata, con Boris Barnet, così come vorremmo ci fossero foto di Rodčenko con Ermler e Pudovkin, che ormai (al di là di presunte sopravvalutazioni coeve ma ben più miopi sottovalutazioni critiche successive) ormai uniamo a Barnet nel massimo pantheon del cinema sovietico.
Di Rodčenko vediamo in mostra anche il progetto del poster di Kinoglaz di Vertov che sintetizza grafie d’avanguardia e collage di immagini fotografiche in cui, con un occhio «divino» al centro, si uniscono una salma e un bambino, un uomo e una donna. Rodčenko, come già nel rapporto non dichiarato con Ejzenštein della foto precedentemente citata, si rivela un grande rifacitore di altre presenze artistiche: così anche di quelle di Majakovskij, di Lili Brik, di Sergej Tret’jakov, ma anche della compagna Varvara Stepanova, della sfortunata amante Evgenija Lamberg, o delle molteplici figure di ginnaste e corpi femminili che travolgono sia parate di regime che coreografie alla Busby Berkeley.
Ed è davvero affascinante come questa parte fotografica al piano superiore della mostra dia un fondo di fisicità esplicita ai corpi che al piano inferiore, nei quadri, si realizzano nel segno coloristico o geometrico. Il disegno di Rodčenko del pagliaccio, grafizzato ma insieme quasi caricaturale delle presenze fisiche quali appaiono in foto, ci sembra emblematico. Di questa mostra non si può inoltre non sottolineare l’importanza della fonte collezionistica. Il Friuli Venezia Giulia, regione che ama e vede crescere le collezioni, accoglie qui un’importante collezione artistica di un diplomatico greco che ha saputo inserirsi nelle maglie delle censure sovietiche, anticipando molte riscoperte di figure rimosse. E nell’anno in cui tutti trattiamo giustamente la vicenda atroce della grande guerra, si possono qui rinvenire alcune realizzazioni memorabili che la trattano «in diretta», oscillanti tra propaganda e presa di distanza, di pittori e cartellonisti, dal citato Majakovskij a Malevič, del quale la mostra mette inoltre nel suo proprio manifesto una splendida gouache. Il collezionista Costakis ha avuto verso l’arte russa il giusto atteggiamento di chi sa guardare: non è stato normativo come il potere sovietico, ne ha raccolto la fertilità che forse solo Lenin sapeva intuire o quantomeno concedere. Perciò alla sua collezione hanno potuto attingere già i primi «disgeli», e oggi vi possiamo reperire tracce importanti di movimenti quali il proiezionismo e il cosmismo. Su quest’ultimo in realtà il catalogo è un po’ sbrigativo: non si è trattato solo di una direzione scientistica verso i voli spaziali (che si direbbe quasi in ciò un’antitesi al geniale richiamo alla forza gravitazionale dell’ultimo Amadeo Bordiga) bensì, nella figura oggi riscoperta da molti del pensatore Fiodorov, del cosmo come punto di fuga del desiderio di richiamo in vita dei morti. Qualcosa di molto diverso dalle mummie leniniane e di quelli che per taluni sono i segreti tratti cosmisti dello stesso Stalin (ma vedi anche la segreta passione di Molotov), quasi in una beffarda contrazione della parola comunismo.