Se non fosse vera fin nei più tragici dettagli, la vicenda di Aya sembrerebbe scritta per il «prossimamente» di un film hollywoodiano, ma di quelli sceneggiati da gente come Steinbeck e Chandler: «una tenerissima storia d’amore, al confine tra due continenti, in bilico tra la vita e la morte». E, in effetti, in questo racconto sembra esserci davvero tutto: la guerra civile che sconvolge la Siria, i grandi movimenti di esseri umani in fuga, la macchina delle procedure europee di ingresso e di respingimento, la vischiosità delle leggi e dei regolamenti, e la «forza dell’amore». Che alla fine ha vinto, perché finalmente ieri sera alle 21 Aya è arrivata a Roma. Potrà così ricongiungersi al marito Fadi. Aya è giunta accompagnata da una hostess con l’aiuto della sedia a rotelle: ha appena 18 anni e soffre da tempo di condrosarcoma di secondo grado del calcagno sinistro. Il suo progetto è quello di raggiungere insieme al marito la Svezia, dove lui risiede regolarmente in qualità di rifugiato e dove lei potrebbe ricevere le cure necessarie. Ecco perché il 6 ottobre scorso avevano tentato di raggiungere l’Italia, per potere – da qui – arrivare in Svezia. Ma all’aeroporto di Fiumicino lei è stata respinta perché, pur se in possesso di un regolare passaporto siriano, ha esibito un documento turco falso, ritenendo che ciò l’avrebbe aiutata a entrare in Italia dal momento che non disponeva del visto necessario. Di conseguenza è stata respinta in Turchia e, da lì, ha raggiunto una conoscente in Libano. Suo marito è stato arrestato con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione irregolare, e trasferito per qualche giorno nel carcere di Civitavecchia. Ora, ospite di amici italiani, attende l’esito del processo. Inizia così la lunga odissea di Aya, la cui destinazione obbligata è l’Italia perché solo da qui, insieme al marito, può riprendere il suo faticoso percorso verso la Svezia e verso una qualche prospettiva di futuro. Ma tra Aya che bussa all’ambasciata italiana a Beirut per chiedere un visto, e il ricongiungimento con il marito a Roma, si erge quel muro di ostacoli e resistenze, di veti e divieti, di cui si è detto.
Il respingimento a Fiumicino del 6 ottobre scorso sembra impedire qualunque soluzione. Nonostante la disponibilità di tanti funzionari, la vischiosità di norme e regolamenti ha protratto la ricerca di una via d’uscita per oltre un mese. È stato necessario esercitare dunque la massima pressione sul ministero degli Esteri e quello dell’Interno e sull’ambasciata italiana in Libano. Infine l’ambasciata ha ritenuto che la soluzione più opportuna fosse il rilascio di un visto per cure mediche. E così è stato. Ma tale documento prevede che vi siano una struttura ospedaliera italiana disposta a ricoverare la paziente straniera, e un soggetto che garantisca la copertura delle spese mediche. A soddisfare il primo requisito si è reso disponibile l’ospedale San Camillo di Roma, grazie all’intervento del chirurgo oncologo, professor Eugenio Santoro. E per il secondo, l’associazione «A Buon Diritto».
Il nodo critico della vicenda, sciolto dopo le meticolose verifiche del ministero dell’Interno, era quello dell’arrivo a Fiumicino evitando il rischio che Aya potesse essere rimandata indietro, qualora il suo nome fosse risultato nel data base del sistema di sicurezza europeo.
Un ruolo decisivo è stato svolto dagli amici italiani di Aya e del marito, che sin dal primo momento si sono adoperati muovendosi con ostinazione e pazienza in un mondo che era loro totalmente sconosciuto.
Ma chi non ha amici in Italia? Chi lancia un grido d’aiuto che non viene raccolto da alcuno? Chi nemmeno riesce a far sentire la sua richiesta di soccorso? Per una storia d’amore che trova il suo provvisorio lieto fine, pur in mezzo a tanti timori sul futuro, mille e mille altre restano senza soluzione. Per queste è più che mai indispensabile una intelligente e razionale politica europea. Di cui al presente non c’è alcuna traccia.