Se negli ultimi venti anni ne avevamo sentito parlare come di cosa morta e defunta, ora torna a far parlare di sé. È l’utopia. Quella strana assenza di luogo che naviga tra il linguaggio e la rivoluzione. Lo spazio in cui finiscono i mondi possibili che non trovano dimora sulla terra. La periferia delle nostre parole.

Identificata col totalitarismo sovietico, a volte anche con quello nazionalsocialista, investita di alcune pesanti responsabilità storiche e morali, ripudiata negli anni Novanta dopo la caduta del muro di Berlino e il conseguente crollo sovietico, l’utopia viene oggi resuscitata e ne viene riscoperta la necessità. Ed è così che Azimuth, la rivista di filosofia fondata nel 2011 da un gruppo di dottorandi (oggi dottorati) della Sapienza di Roma, le dedica il suo terzo numero cartaceo: Utopie. Non-luoghi del linguaggio e della politica, a cura di Libera Pisano e Andrea Pinazzi, edizioni di Storia e Letteratura. È una buona notizia che a occuparsi di utopia – attraverso una rivista nata con l’obiettivo di provare a ridisegnare una mappa possibile del mondo – siano giovani ricercatori appartenenti a una generazione quotidianamente accusata di non avere ideali né prospettive. Da qui, dall’esperienza e dal punto di vista di questi under quaranta, si sviluppa l’ipotesi di cercare una via solidale che destituisca il mito solipsistico dell’eternamente ricco, bello e giovane nel quale sembra finito l’immaginario occidentale, e dal quale per ora sembra incapace di uscire.

Riconsegnare all’utopia una centralità nel pensiero significa anche assumersi alcune responsabilità, non ultima quella di indagare i nessi tra modello astratto e società reale controllata in modo totalitario, tra immagine unica/universale e moltitudini. Eppure, come scrive Manuela Ceretta in uno degli interventi che compongono questo numero, ciò che rende abominevole il mondo orwelliano di 1984 è la mutilazione del linguaggio, la pratica scientifica e violenta che esclude la forza evocativa delle parole.

Riappropriarsi dell’utopia significa oggi cercare di includere nel linguaggio ciò che negli ultimi decenni, in Occidente, è stato rimosso: la capacità di prefigurazione. Significa andare controcorrente rispetto a quella mutilazione che Orwell aveva previsto e che ha negato ogni ipotesi di prospettiva a intere generazioni. Nominare l’utopia potrebbe addirittura condurre a un nuovo immaginario.

Qualunque sia il suo limite, l’utopia nasce laddove razionalmente ed emotivamente riconosciamo che questo nostro mondo è ingiusto, brutale, doloroso. Qualunque sia il nostro sogno – nostalgico, velleitario, sentimentale, patetico, intellettualistico – ogni volta compiamo un atto «sovversivo».

La rivista ospita una decina di interventi di personalità filosofiche internazionali (Pierre Macherey, Vincenzo Vitiello, Lisa Block de Behar, Nicole Pohl e tanti altri) che indagano il tema da diversi punti di vista, passando per i classici della formulazione utopica fino ad arrivare alle esperienze del Novecento e alle narrazioni di genere. Chiudono due interventi dei Poeti del Trullo scritti per Azimuth: una poesia che descrive una piccola, possibile città utopica, e un sonetto sulla Roma stracciona affaticata dai poteri che la abitano.

Una bella sfida editoriale, che tornerà in libreria a dicembre con un numero dedicato alle cosmologie possibili, tra narrazione e logica.