Die Zauberflöte (Il Flauto magico) è uno dei titoli più famosi della storia del teatro lirico: trama archetipica di Emanuel Schikaneder, personaggi vivaci e drammaturgicamente memorabili, infinite interpretazioni simboliche possibili (fiabesca, illuministica, massonica ecc.).

E su tutto la musica astrale di Wolfgang Amadeus Mozart, qui al suo penultimo cimento operistico in termini di composizione (subito precedente La clemenza di Tito), ma ultimo in termini di rappresentazione, avvenuta il 30 settembre 1791 con enorme successo. Il compositore si spegneva a Vienna poco più di due mesi dopo. Dal 2 al 26 settembre il Teatro alla Scala di Milano si cimenta con un allestimento di questo capolavoro che il sovrintendente Alexander Pereira ha definito «la produzione più difficile e rischiosa» del suo mandato. Non tanto perché sia un titolo raro (è tra le opere più rappresentate al mondo) o perché la sua esecuzione, come accade ogni anno da molti anni, sia affidata ai Solisti e all’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala, un’istituzione che annovera 1200 allievi provenienti da tutto il mondo.

L’azzardo è duplice. Intanto questo allestimento è l’avvio di un progetto che vedrà impegnati a ogni stagione un direttore d’orchestra e un regista di importanza internazionale nella preparazione degli allievi dell’Accademia mediante un intero anno di workshop e prove – in questo caso il direttore ungherese Ádám Fischer, autorevole mozartiano che ha debuttato alla Scala nel 1986 proprio con Die Zauberflöte, e l’iconoclasta regista tedesco Peter Stein (coadiuvato dallo scenografo Ferdinand Wögerbauer e dalla costumista Anna Maria Heinreich) – con l’obiettivo di presentare uno spettacolo che non solo coroni un percorso di studi ma che abbia lo stesso livello qualitativo di una produzione professionale di un grande Teatro. Inoltre l’opera, che mancava a Milano dal 2011 (quando fu magnificamente allestita da William Kentridge), è rappresentata nella sua forma integrale, con i lunghi recitativi che nelle versioni tradizionali vengono tagliati, se non addirittura eliminati.

«La sfida – spiega Stein – è di insegnare ai cantanti la recitazione di prosa. Perché Il flauto magico è un Singspiel, non un melodramma, e almeno il cinquanta percento dell’opera è parlato. Dunque l’attorialità diventa importante quanto il canto. Il lavoro con gli allievi è stato lungo e faticoso, perché nei conservatori si trascurano gli aspetti legati all’articolazione della lingua, ai movimenti sul palco, a come si imposta un dialogo».

Sia il regista che il sovrintendente erano però consapevoli che la giovane età degli interpreti sarebbe stata appropriata alla trama di un’opera che mette in scena la storia di due giovanissime coppie che vogliono coronare i loro sogni amorosi. Il percorso formativo ha entusiasmato gli allievi dell’Accademia della Scala, impegnati a tutti i livelli e in tutti i ruoli: oltre che in orchestra e sul palco, anche nella realizzazione scenica e come fotografi per documentare la lunga gestazione dell’opera. Segnaliamo l’energia inesauribile di Till Von Orlowsky, che tratteggia un Papageno scenicamente delizioso e vocalmente sempre a fuoco; la grazia di Fatma Said nel ruolo di Pamina e di Martin Piskorski in quello di Tamino, due amorosi dalle voci ben sfogate e dal fraseggio debitamente variato. Yasmin Özkan nel ruolo della Regina della notte è parsa a tratti un po’ in difficoltà, sia per timbro e volume, sia per le agilità faticose; Martin Summer è un Sarastro un po’ carente nel registro grave, che dovrebbe caratterizzarlo. Bravissime le tre donne e i tre fanciulli.