Ba’aqa è un mondo lontano. Nei 20 chilometri che separano Amman dal più grande campo profughi palestinese in Giordania, dove in meno di 2 kmq vivono ammassate quasi 100mila persone, si possono osservare la complessità e la fragilità del regno hashemita. Si passa dal Paese alleato degli Usa che strizza continuamente l’occhio all’Occidente, alla disperazione dei tanti, prima i palestinesi e ora anche tanti siriani, che hanno trovato rifugio in questo campo. A Ba’aqa nessuno segue la campagna per le elezioni del 20 settembre, con i suoi poster colorati, che anima la capitale. Amman guarda al futuro. I suoi quartieri residenziali alberati, abitati dalla classe media, ricordano quelli di una città europea. Ba’aqa con le sue case povere e la sua routine di sopravvivenza, invece è immerso nel passato. È la rappresentazione del destino subito dai palestinesi, cacciati della loro terra, e delle guerre che da decenni dilaniano questa parte del Medio oriente. A poche decine di chilometri c’è la Siria con il suo bagno di sangue. «Nella fede, nella Legge (coranica) ho trovato la soluzione che cercavo. E come me tanti altri ragazzi di Ba’aqa. Abbiamo capito che ci basta poco, perché la vita sono Allah e il Profeta», ci dice Hammude, nome che ha inventato al momento per non rivelarci la sua identità. «Dobbiamo guardarci dai falsi predicatori dell’Islam, da chi si è corrotto inseguendo modelli estranei alla Legge», aggiunge con apparente riferimento ai Fratelli Musulmani che partecipano al voto di martedì.

Hammude ha 19 anni e si proclama un seguace dei Salaf, dei primi califfi dell’Islam, un ammiratore dello stile di vita di Maometto. I suoi nonni scapparono dalla Cisgiordania occupata da Israele nel 1967. «Mio padre è un illuso – dice – crede ancora che un giorno l’Onu o l’America costringeranno Israele a ridarci la Palestina. Io credo solo nel volere di Allah, so che un giorno permetterà ai musulmani di liberare tutte le loro terre». Hammude è un salafita ma non un jihadista. Respinge il takfir, la scomunica dei musulmani che non vivono secondo le regole della fede. Però tra i suoi amici, ci spiega, molti sono diventati fan dell’Isis «Dicono che la loro condizione non cambierà con la politica ma solo con atti di forza». E a Ba’aqa, aggiunge Hammude, da tempo vivono o si nascondono jihadisti giordani, siriani e di altri Paesi.

La situazione del campo profughi perciò si è fatta più precaria. Le forze di sicurezza lo presidiano con ingenti forze dopo l’attentato dello scorso giugno, con morti e feriti, contro un vicino comando dell’intelligence. Ba’aqa è nel mirino del GID, il servizio segreto giordano. «Ba’aqa non è una roccaforte del jihadismo come afferma e scrive qualcuno», ci dice l’analista Mouin Rabbani «resta un campo dove vivono decine di migliaia di profughi cacciati dalla loro terra. Negli ultimi anni è diventato anche il rifugio di un certo numero di individui, nella maggior parte dei casi cittadini giordani, che credono nel Jihad». La cosa non deve sorprendere, sottolinea Rabbani. «Queste persone – spiega – sanno che i campi profughi (palestinesi) sono densamente popolati, offrono nascondigli sicuri e che le forze di sicurezza vi lanciano rastrellamenti solo in casi eccezionali». I jihadisti sanno di poter trovare dei fiancheggiatori tra i giovani più disperati che cercano riferimenti forti. «La condizione di Ba’aqa e di altri campi perciò si è deteriorata – afferma Rabbani – mancano i servizi e si è ridotto l’aiuto dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, ndr), alle prese con la riduzione del suo budget, e anche di quello dello Stato. La Giordania sta affrontando una seria crisi finanziaria».

La diffusione del jihadismo e del salafismo radicale non è un fenomeno nuovo in Giordania, Paese che ospita i programmi Usa per l’addestramento dei “ribelli moderati siriani” e fa parte della Coalizione anti-Isis a guida americana. Almeno 4mila giordani sono andati a combattere in Iraq e Siria. Dalla Giordania proveniva Abu Musab Zarqawi, ucciso nel 2006, fondatore dello “Stato Islamico in Iraq” poi divenuto lo “Stato Islamico in Iraq e Siria” sotto la guida del suo successore, il “califfo” Abu Bakr al Baghdadi. Giordani sono Abu Muhammad al Maqdisi e Abu Qatada al Filastini, due teorici del qaedismo che due anni fa le autorità hanno cercato di cooptare nel tentativo fallito di liberare il pilota Muath al Kasasbeh catturato nel dicembre 2014 e bruciato vivo dall’Isis. Una volta compreso che al Maqdisi e Abu Qatata ormai hanno scarsa influenza sui jihadisti filo-Isis, le autorità e il GID sono passati alla repressione più dura, colpendo prima di tutto gli imam delle circa 2mila moschee (su 6000) non registrate ufficialmente, incluse quelle di Ba’aqa. Gli abitanti del campo sono dei potenziali terroristi agli occhi delle forze di sicurezza. «La politica più saggia – commenta Mouin Rabbani – è quella di capire le ragioni di ciò che accade a Ba’aqa e in altre zone emarginate del Paese. Solo ridando un futuro e una speranza a chi li ha perduti si può rispondere efficacemente al radicalismo religioso».