C’è chi tenta, inutilmente, di scavalcare le reti, forse solo per non restare fermo, forse per rendersi visibile. Altri fanno lunghe file per avere una tenda che li ripari dal freddo e dalla pioggia. Molti restano seduti a terra, con i figli piccoli tra le braccia; e tanti altri sono ancora in cammino. Immagini di un’umanità al capolinea: il girone infernale del valico di Bab al-Salama è la fine del mondo, il suo fallimento.

I rifugiati siriani che premono sul confine turco non si contano nemmeno più, ognuno dà il suo bilancio. Forse 35mila, forse 45mila. Ma tanti altri ne arriveranno perché la battaglia di Aleppo proseguirà. Ieri il governo di Ankara, che tiene le frontiere serrate e si limita ad inviare gli aiuti al di là del valico, avvertiva della possibile fuga di 600mila siriani: «il peggiore scenario», l’ha definito ieri il vice premier Kurtulmus. «Il nostro obiettivo per ora è tenere i migranti dall’altro lato della frontiera turca – ha aggiunto – e fornire loro i servizi necessari».

Le tende aumentano, con lentezza, ma la gente è esasperata: «Non siamo venuti fin qui per una tenda – dice Saleh, residente di Aleppo, alla Cnn – Non vogliamo cibo né acqua. Vogliamo passare, vogliamo sicurezza per i nostri figli». È arrivato qui, alle porte turche, con cinque bambini. Suo fratello con i sei figli. Hanno camminato, racconta, durante la notte: «Ci siamo nascosti in un uliveto, pensavamo che in campagna fosse più sicura ma ci siamo ritrovati sotto i bombardamenti russi».

Storie che si sovrappongono, si ripetono, si moltiplicano: «L’Isis ci aveva circondato su tre lati e nel quarto c’erano i russi a bombardare. Abbiamo provato a fuggire da diverse direzioni e alla fine ce l’abbiamo fatta», le deboli parole di Mohammed, stremato. «Il mio villaggio è un villaggio fantasma. Siamo arrivati qui e il confine è chiuso. Vogliamo solo che lo aprano. Siamo distrutti, non abbiamo un posto dove andare, non abbiamo più niente».

Alcuni nemmeno una tenda, bene prezioso sotto la gelida pioggia che cade su Bab al-Salama. Come Khalil Juma, 54 anni, costretto con la famiglia a dormire in un autobus abbandonato, vicino alla frontiera.

Le notizie che arrivano da Aleppo prospettano un futuro ancora peggiore. La città è stretta tra tre fronti, governo, opposizioni moderate e islamiste e Stato Islamico. Tra le macerie di una città patrimonio dell’Unesco, con alle spalle 5mila anni di storia, casa per arabi, armeni, circassi, kurdi, nei quartieri controllati dalle milizie anti-Assad restano intrappolati 350mila civili. Era la città più popolosa della Siria, quasi due milioni di abitanti. Oggi è il fantasma di se stessa, simbolo inequivocabile e terrificante di un conflitto che ha devastato il cuore del mondo arabo.

«Non c’è più speranza, non ce n’è più», dice un anziano residente, Abu Umar, davanti alle telecamere di Middle East Eye. Qui, nei quartieri delle opposizioni, i miliziani si preparano allo scontro finale, alcuni residenti si uniscono a loro, prendono le armi in attesa che le truppe governative arrivino alla loro porta.

E la devastante sofferenza di Aleppo non è unica: Idlib, Damasco, Deir Ezzor, Madaya, Fu’ah, Kefraya, Homs condividono un destino identico. L’associazione indipendente Siege Watch, ieri, ha rivisto il bilancio di civili che vivono in stati di assedio in 46 diverse comunità: non 500mila (calcolati a gennaio dall’agenzia dell’Onu Ocha), ma almeno un milione. Un numero esorbitante, intere comunità sotto assedio del governo, dello Stato Islamico o dei gruppi di opposizione, tutti colpevoli degli stessi crimini contro la popolazione.

Intanto a guardare ad Aleppo è soprattutto Ankara. Lo ha espressamente detto ieri il premier Davutoglu: 350mila siriani sotto assedio ad Aleppo sono pronti a muoversi in Turchia. E la Turchia non vuole altri profughi, ne ospita già due milioni e mezzo e si tappa le orecchie davanti agli appelli dell’Onu che chiede l’apertura delle frontiere. E l’Europa dei tre miliardi di euro non intende farsene carico. Per questo, dopotutto, ha messo in mano al presidente Erdogan il generoso pacchetto di aiuti.

Ma l’emergenza è destinata a diventare cronica, soprattutto in questo pezzo di pianeta: la Siria è entrata in una nuova fase di conflitto, dopo il palese fallimento del negoziato sponsorizzato dall’Onu. A manovrare le direttrici della guerra è la Russia che vuole chiudere i giochi il prima possibile. Per questo ha lanciato la controffensiva su Aleppo, destinata a concludersi con la sconfitta militare e politica delle opposizioni. Allora – è il pensiero di Mosca – quando resteranno solo i jihadisti di al-Nusra e Stato Islamico, si potrà negoziare. E ieri l’Isis ha ricordato di esserci: un’automba rivendicata dagli islamisti ha ucciso 10 persone di fronte ad un centro per funzionari di polizia a Damasco, nel quartiere di Masaken Barzeh, vicino al mercato della verdura.

Ma non c’è solo la Russia. Il fronte anti-Assad non sembra voler cedere così facilmente la presa di un paese che ha trascinato e mantenuto in un quinquennio di guerra civile. Secondo Press Tv, che cita media sauditi, il ministro della Difesa di Riyadh, Mohammad Bin Salman, incontrerà a breve i vertici della Nato per discutere il dispiegamento di proprie truppe in Siria. Ufficialmente, come più volte detto dalla petromonarchia, per combattere l’Isis. Ufficiosamente per impedire l’ulteriore avanzata del governo.