Mohammed ha 17 anni e se c’è una cosa che sa fare bene è riparare i motori delle barche. Qualità d’oro per chi va per mare. Per questo quando in Egitto la crisi è peggiorata e lui non ha più potuto continuare il suo lavoro di guida turistica, non ha fatto fatica a contrattare con i trafficanti uno sconto per attraversare il Mediterraneo. Uno come lui, che all’occorrenza sa dove mettere le mani per far ripartire i motori delle carrette, può essere prezioso. Alì invece è ancora un bambino e non solo perché ha solo 15 anni. Chi ha avuto modo di vederlo e di parlarci, nel carcere minorile di Bicocca, a Catania, lo descrive bambino timido, che abbassa gli occhi se solo gli fai una domanda. Quando, anche per lui, è arrivato il momento di cercarsi una possibilità di futuro in Europa gli scafisti gli hanno fatto un’offerta che non poteva rifiutare. «Lavora per noi e ti facciamo uno sconto sul prezzo del viaggio», gli hanno detto. E lui, o molto più probabilmente suo padre, ha accettato. In fondo che altro poteva fare?

Nella tragedia degli immigrati bambini Mohammed e Alì rappresentano una storia a parte, di certo non meno drammatica delle altre. Sono ragazzi scafisti, a volte poco più che bambini, ingaggiati dai trafficanti di uomini per fare i lavori a bordo delle navi durante la traversata. Presi anche loro per fame, illusi con la speranza di poter godere di un trattamento privilegiato. In realtà sfruttati come gli altri, perché i trafficanti non ci pensano due volte ad abbandonarli al loro destino quando è il momento. E per loro il futuro diventa letteralmente una prigione. Una volta arrivati a terra, infatti, alle domande della polizia che gli chiede di indicare chi comandava sopra le carrette, i migranti indicano anche loro, i ragazzi di bordo. Perché avevano un ruolo, e quindi vengono considerati responsabili tanto quanto i trafficanti veri.

Sono decine i ragazzi scafisti. Solo a Catania la procura indaga su almeno quindici casi, altri due sono invece in carcere a Caltanissetta e altri ancora ad Agrigento e Siracusa. Quasi tutti sono egiziani, ma ultimamente è stato arrestato anche un ragazzino subsahariano, probabilmente arruolato dai trafficanti quando si trovava già A bordo del gommone che lo ha portato fino in Sicilia.

Tutti rischiano grosso: la magistratura contesta loro infatti il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che prevede una pena fino a 7 anni di carcere. Per fortuna, però, offre loro anche una possibile via di uscita: quella di essere trasferiti, dopo alcuni mesi passati in carcere, in una comunità e di accedere alla messa in prova e quindi, se tutto va bene, dopo un paio di anni di vedere cancellato il reato. «Finora non si è concluso neanche un processo nei confronti di questi ragazzi», spiega l’avvocato Flavia Cerino, tutore di alcuni piccoli scafisti. «Spesso non capiscono neppure perché sono indagati e comunque per loro, abituati a vivere liberi in strada, l’impatto con il carcere è devastante».

In molti casi sono proprio le famiglie, e in particolare i padri, a contattare le organizzazioni criminali offrendo di far lavorare i figli in cambio di uno sconto sul prezzo della traversata. Sconto che può essere consistente: dagli almeno 3.000 dollari del prezzo iniziale si può scendere fino a 700-1.000. Una volta a bordo delle carrette ai ragazzi spetta il compito di distribuire acqua e cibo ai migranti, oppure di preparare il té per i trafficanti. Loro soli, sui pescherecci o sulla navi madre che trasportano i migranti fino al limite delle acque internazionali, hanno il permesso di entrare nei locali che normalmente sono di uso esclusivo degli scafisti, nella cabina o nello spazio vicino al timone. Si danno da fare, rispettano il patto siglato al momento della partenza. Ed è sempre a loro che spesso i trafficanti affidano il compito di chiamare i soccorsi con un telefono satellitare. L’ordine è secco: «Lancia l’Sos e gli italiani vengono a prendervi», intimano i trafficanti.

I problemi per loro nascono una volta che, recuperati dalle navi dell’operazione Mare Nostrum, arrivano in porto. Per le leggi italiane, infatti, sono degli scafisti colpevoli come i trafficanti veri. Un trauma, anche perché loro sono convinti di non aver fatto nulla di male. «Far capire a questi ragazzi che dare da mangiare o da bere a dei disperati che fuggono è un reato è molto difficile», prosegue l’avvocato Cerino. «Sono convinti di aver fatto una cosa buona, ed è lontano dalla loro cultura capire che invece stanno favorendo l’immigrazione clandestina».
Ci vuole tempo. Dopo i primi mesi di carcere cominciano a comprendere la situazione in cui si trovano. Riescono a parlare con la famiglie e spesso danno avvio a un percorso di integrazione che parte dallo studio dell’italiano. Fino al passaggio alla comunità. «Sono sempre sotto custodia, ma almeno non si trovano più in carcere» prosegue l’avvocato Cerino. Che non nega come a volte qualcuno preferisca fuggire.

«È molto difficile capire chi fa parte di un’organizzazione criminale ed è anche molto difficile dimostrarlo, perché i migranti che inizialmente li hanno indicati come scafisti difficilmente testimoniano dopo mesi di distanza nei processi», spiega l’avvocato. «Il tempo aiuta a capire se dicono la verità oppure no: se dopo mesi di carcere dicono di voler tornare in Egitto, allora è probabile che siano complici dei trafficanti. Ma la maggioranza vuole restare in Italia. Ed è chiaro che questi volevano solo fuggire dal loro paese».