Un editore di Potenza, Grenelle, ci ripropone utilmente uno dei libri di poesia americana più importanti del secolo scorso, White Buildings di Hart Crane (a cura di Piero Pascarelli, pp. XL+86, € 14,00). È un piccolo libro (contiene ventitrè poesie) di grande tensione lirica, che anche per il suo formato tascabile invita alla lettura odeporica.
Hart Crane era contemporaneo di Hemingway e dell’amico Cummings e raggiunse nella breve e tormentata vita di omosessuale alcolizzato dei vertici lirici assoluti. Di solito lo si ricorda per il poema The Bridge, che doveva essere una risposta affermativa e whitmaniana a The Waste Land. Ma c’è chi sostiene che in queste liriche brevi Crane ha dato il suo meglio. Ecco i primi versi della prima poesia, «Legend»: «As silent as a mirror is believed / Realities plunge silent by…». Pascarelli traduce: «Silenziose come si crede uno specchio / Le realtà affondano nel silenzio vicino…». C’è la lezione dei metafisici (Eliot) recepita in un bar di Broadway. E la vocazione assoluta della poesia (Shelley). Infatti Crane continua: «Non sono pronto al pentimento; / Né a misurare rimpianti… E tremuli / Fra i bianchi fiocchi cadenti / Sono i baci – / L’unica verità che vale tutto». È un programma di passione e abbandono (Crane morì suicida a trentadue anni gettandosi da una nave nel Golfo del Messico).
Tipica della poesia di Crane è l’abbondanza di immagini e sinestesie. Il tutto si giustifica come musica e spesso non è facile per lettore (e traduttore) raccapezzarsi fra tanta ricchezza e stranezza. Comprendiamo a tratti, a lampi, ascoltiamo la risacca. La raccolta si conclude infatti con la celebre sequenza «Voyages», sei poesie estatiche nate da un grande amore: «Hasten while they are true, – sleep, death, desire, / Close round one instant in one floating flower» («Affrettati finché son vere – il sonno, la morte, il desiderio, / Sono racchiusi all’istante in un fiore che galleggia»). Sullo sfondo il paesaggio sognante dei Caraibi, dell’oceano. Melville, che scrutò quel mondo ambiguo di fiori e desideri appagati, appare nei celebri versi sulla sua tomba: «Spesso di sotto l’onda, di là da questa scogliera / Egli vide i dadi d’ossa degli annegati lasciare / Un’ambasciata…». Crane è un poeta urbano che vede il suo viso moltiplicato in una caraffa («Il serraglio del vino»), ma ha nostalgia di spazi interminati, e una famosa poesia si intitola «Riposo di fiumi»: «Non potei mai ricordare / Quel ribollente regolare acquattamento delle paludi / Fino a che l’età non mi portò al mare».
Com’è giusto, i versi e le immagini non sono mai del tutto perspicui, e di alcuni credo nessuno sia mai venuto a capo, tale e tanta è la densità metaforica e sintattica. La traduzione (la seconda dopo quella felice di Roberto Sanesi, raccolta nel volume Il ponte e altre poesie, 1967) aiuta a scandagliare l’inglese, che poi va assaporato di per sé. Sul livello sonoro c’è anche l’imitazione del jazz, presente nel poemetto «Per il matrimonio di Fausto ed Elena», uno dei più ampi e, sì, difficili. Il lettore meno smaliziato si accontenterà di liriche meno ardue, come «Chaplinesque», che piacque allo stesso Chaplin: «Perché possiamo ancora amare il mondo, noi che troviamo / Alla porta un gattino affamato, e conosciamo / Segreti ripari per lui dalla furia della strada…». La protezione della debolezza, il poeta esaltato e il poeta del cinema. E poi la sconfitta, nonostante tanto sognare. White Buildings è un volumetto tutto da godere ma sarebbe un errore prenderlo per poesia pura. Nel suo folle volo c’è un elemento tragico che è connaturato all’esperienza americana.