In Giordania sono manovali e spazzini. In Libano vengono impiegati nelle piantagioni di pomodori e tabacco. In Iraq, invece, chiedono l’elemosina nelle strade oppure provano a racimolare qualche soldo vendendo gomme e caramelle. In Turchia, infine, lavorano come piccoli operai nelle fabbriche tessili, oppure come facchini nei mercati. Un fenomeno che si sta rapidamente espandendo anche in Grecia e negli stati europei nei quali sono rimasti intrappolati dopo la chiusura della rotta balcanica.
Nelle pieghe del dramma dei rifugiati c’è anche l’inferno in cui sono costretti e vivere milioni di bambini. Cinque anni di guerra civile in Siria hanno infatti ridotto allo stremo quanti sono fuggiti cercando rifugio nei paesi confinanti. Finiti da tempo i risparmi, con gli adulti impossibilitati a lavorare perché mutilati o a causa dei divieti imposti dai paesi che li accolgono, la sopravvivenza delle famiglie è sempre più spesso nelle mani dei bambini costretti a svolgere lavori pesanti e sottopagati. Sfruttati e – specie le bambine – sempre a rischio di molestie sessuali da parte di datori di lavoro senza scrupoli. Ma, paradossalmente, più fortunati dei loro coetanei che in Iraq e nel nord del Libano, al confine con la Siria, vengono arruolati dalla varie milizie e trasformati in bambini soldato. «Tra le più odiose conseguenze della guerra in Siria c’è l’impressionante incremento del lavoro minorile, sia tra i bambini all’interno del Paese, sia tra quelli che sono rifugiati all’estero assieme alle loro famiglie o da soli», denuncia Terre des Hommes.
In occasione della giornata contro il lavoro minorile che si celebrerà il 12 giugno l’organizzazione, presente in tutti i paesi in cui si trovano i profughi siriani, ha messo a punto un rapporto intitolato «We struggle to survive» (Ci sacrifichiamo per vivere) in cui raccoglie le testimonianze di 97 bambini e ragazzi lavoratori tra gli 8 e i 18 anni (86 siriani e 11 iracheni). Più del 50% degli intervistati ha affermato di lavorare più di 7 ore al giorno e il 33% lavora 7 giorni su 7. Ai maschi spettano i lavori più duri, mentre le bambine vengono impiegate nei saloni di bellezza oppure come tessitrici, ma anche per fare e pulizie domestiche. «Qualunque tipo di lavoro – ha spiegato una bambina – basta che non sia pericoloso, non comprometta la reputazione o vada contro la religione», ha raccontato una bambina. «Vendere per strada può dare problemi, si può essere cambiati per mendicanti. Inoltre non bisogna entrare i commerci illegali come vendere alcolici, prostituirsi o rubare, perché è contro l’Islam». Una paga media in Giordania varia tra i 3 e i 6 euro al giorno, in Iraq chi trova lavoro in un hotel o in un ristorante può guadagnare 400 dollari al mese, mentre un lustrascarpe o un manovale ne guadagna 8-10 dollari al giorno. «Particolarmente preoccupante – spiega il presidente dell’organizzazione, Raffaele Salinari – è la presenza di lavoro minorile in Turchia, un paese che aspira ad entrare nell’Unione europea, e l’affacciarsi di questo fenomeno sulla rotta balcanica, con alcuni casi di bambini lavoratori rilevati nella zona di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, a causa della mancanza di un’adeguata assistenza umanitaria ai migranti».

L’organizzazione chiede quindi ai governi che ospitano i rifugiati e alle agenzie umanitarie di adottare subito meccanismi di protezione dei bambini e di prevenzione del loro sfruttamento.