Alla prima convention di sole tatuatrici donne che si è tenuta a Roma qualche settimana fa (The Other Side of The Ink), erano presenti quest’anno più di cento tra le migliori artiste del panorama nazionale e internazionale. Non bisogna aspettarsi di vedere merletti, caramelle e lollipop. L’ambiente del tattoo resta sempre piuttosto rude. Tatuarsi vuol dire avere a che fare con il dolore e il sangue; fermare sul proprio corpo esperienze che ci hanno segnato, appunto. Il fenomeno è trasversale e riguarda tutte e tutti, ogni età. Non esiste poi una differenziazione netta tra soggetti per donne e soggetti per uomini. Quello che conta, in sostanza, è fare l’esperienza e possedere sulla propria pelle dei piccoli capolavori.

Il segnale lanciato dalla convention, però, vale la pena captarlo. Le tatuatrici sono donne che lavorano ad alti livelli in una realtà che storicamente è maschile. Il volume di affari è importante: girano tanti soldi. Parliamo di professioniste che lavorano parecchio, in genere sono manager di uno studio che gestiscono da sole. Sanno muoversi agevolmente su tutti gli stili, dal polinesiano al traditional, dal realistico al giapponese. In mezzo, c’è una grande ricerca e un desiderio di «personalizzazione» dei loro disegni, qualcosa che possa rendere la loro mano riconoscibile.

Forse è azzardato parlare di tatuaggio di genere, ma sembra che lo stereotipo della «bella femmina», seduta dietro il biker sulla Harley, si stia liquefacendo tra i fiumi di inkiostro che scorrono sui corpi.

«A volte decidere di tatuarsi significa semplicemente lasciarsi andare, saper disporre del proprio corpo in maniera libera e ’dissacrante’ – spiega Sasha Prosperi, titolare di JU tattoo studio a L’Aquila fin dal 2001 -. Riabbottonarsi la camicia con un ghigno di appagamento/soddisfazione per aver aggiunto al corpo un’appendice che entra a farvi parte tanto quanto il naso, la bocca o i capelli, ma stavolta l’abbiamo scelta noi. Nel caso bene augurato in cui ci è affidati a uno studio di professionisti si esce avendo addosso un bel pezzo. Probabilmente qualcosa che ci ha resi più attraenti di prima: ci piacciamo di più e ci sentiamo più forti»…

Da quanto tempo fai questo mestiere?

Sono più di vent’anni che tatuo. Il mio lavoro, nel tempo, ha subìto diverse trasformazioni. La tecnologia ha conosciuto un’evoluzione pazzesca, i colori, gli aghi, tutto ha avuto un’evoluzione positiva. Se vai in spiaggia d’estate, puoi vedere sui corpi stessi come il livello di professionalità si sia alzato notevolmente. Quello che, invece, resta ancora un terreno da esplorare e che, personalmente, mi spinge a cercare come se fossi un frenetico cane da tartufo è la possiiblità di andare oltre il soggetto standardizzato. Le mie bambocce, ad esempio, cercano di avventurarsi proprio su questo nuovo territorio. Nel tatuaggio tradizionale, la rappresentazione del corpo femminile è affidata alla procace e ammiccante pin-up dell’old style o alla raffinata artista e intrattenitrice geisha giapponese. Le donne che amo proporre ai mie clienti sono piuttosto diverse. Gioco molto sui contrasti: hanno dei grossi capoccioni con chioma fluente, occhi con ciglia lunghe e ferme labbra rosse. Il corpo dalle forme più improbabili: una spina dorsale, un cuore che sprizza sangue dall’aorta, addome di ragno e zampe pelose. Sono adorabili. Restituiscono una melliflua sensazione di forza e determinazione. In genere, cerco di ispirarmi al cliente che la commissiona, una specie di ritratto-caricatura.

Il rapporto che si instaura con i clienti ha quindi un peso…

È importantissimo. Fino a circa una decina di anni fa era da ammirare il corpo tatuato, ora ci sono i tattoo artists al centro dell’attenzione, sono loro a essere diventati delle star – se ci spostiamo su livelli alti di professionalità. Questo comporta che, spesso, quando un cliente entra in uno studio di tattoo con un’idea, è molto probabile che non venga quasi per nulla accolta e sia sostituita da quella che il tatuatore considera «giusta». Io non sono affatto d’accordo con questo atteggiamento: è forse proprio qui emerge più chiaramente la differenza che segna l’essere una donna. Mi piace ascoltare le storie di vita delle persone, mi lascio andare all’empatia. Tante volte mi capita di dover eseguire dei ritratti realistici. Può trattarsi di volti di persone care che non ci sono più, che si fa fatica a lasciar andare. In quei momenti, scatta quasi una seduta dall’analista. Sento forte su di me la responsabilità di non poter sbagliare neanche il più piccolo particolare di quella foto, devo rendere la luce di quegli occhi… nella maggior parte dei casi, mi capita di commuovermi.

È una specie di scambio di fiducia alla pari, dunque…

Sì, i corpi si affidano totalmente. Tatuarsi è un’esperienza che mette in gioco i nostri limiti e desideri. Non c’è spazio per strette categorie di bello-brutto, magro-grasso, giovane-vecchio, uomo-donna. Quando si entra in un tattoo-studio è normale spogliarsi e venire puntati da diversi occhi che iniziano a immaginare cosa si può realizzare. Il tabù non esiste. A volte, mi chiedono di coprire delle vecchie cicatrici o tatuaggi fatti male. È una bella soddisfazione vedere un mio lavoro vivere su un pezzo di pelle che qualcuno neanche sentiva più suo…

Anche il tuo corpo è «scritto», sei piena di tatuaggi

Non abbastanza, non quanto vorrei. Vado piano, me la prendo comoda. Non seguo le tendenze, preferisco sempre disegni originali. Guardo il panorama dell’arte e dell’illustrazione, la natura che mi sta intorno. Mescolo stili.

È vero che i tatuaggi devono essere sempre dispari?

Sì, è vero. È una storia che viene dai marinai. Prima di essere imbarcati facevano un tatuaggio di buon auspicio per affrontare il viaggio che quasi sempre era a rischio di morte; appena arrivati, sani e salvi, un altro tattoo per ringraziare la sorte benevola. Il terzo, era quello del ritorno a casa. Chi non lo aveva, lasciava intendere che a casa non era più rientrato: il terribile mostro marino dell’oceano lo aveva inghiottito. Sono solo superstizioni, tuttavia mi piace fare mia questa storia e mi diverte raccontare che se il terzo non ce l’hai non è perché sei naufragato, ma perché sei ancora in viaggio e alla tua «destinazione-casa» devi ancora arrivare, superando chissà quante altre avventure…