Specialista di effetti speciali e di immagini digitali, con un passato di collaboratore di Alex de la Iglesia, Gabe Ibáñez si presenta dotato di un curriculum compatto, stretto intorno a un nucleo di ossessioni ritornanti. Anche Autómata, suo secondo lungometraggio dopo Hierro presentato a Cannes nel 2009, ruota intorno all’idea dell’intelligenza artificiale delle macchine cui fa da contraltare un discorso tutto sommato molto tradizionale sulla maternità.

Non privo di interesse, anche se senz’altro non riuscito rispetto alle evidenti intenzioni autoriali del progetto, Autómata rilegge I, Robot di Alex Proyas, Il mondo dei robot di Michael Crichton e, soprattutto, Blade Runner di Ridley Scott per formulare delle riflessioni, non particolarmente originali, sui limiti dell’intelligenza umana, le possibilità di quella artificiale e il destino stesso dell’umanità. Se i riferimenti visivi al film di Scott sono sin troppo evidenti nella prima parte del film, il resto di Autómata, ambientato nel deserto radioattivo, ricordano sia il pianeta Tataouine di Guerre stellari che le distese polverose di Dust Devil di Richard Stanley.

Evidentemente Gabe Ibáñez è un cineasta che ama il genere e l’omaggia senza troppi problemi. Intrecciando nella premessa narrativa il surriscaldamento del pianeta, le leggi della robotica di Asimov e, come da lezione di Blade Runner, un’indagine sulle tracce di una macchina sospettata di essere dotata di intelligenza, il film ripercorre i maggiori luoghi comuni della fantascienza filosofica. Se la parte urbana del film, con le sue notti illuminate dai neon e bagnate da pioggia perpetua, suscita qualche interesse, la successiva, ambientata nel deserto, s’appiattisce in una scenografia post-apocalittica.

rodotto e interpretato da un Antonio Banderas completamente calvo nel ruolo di un agente d’assicurazioni che s’improvvisa detective privato suo malgrado, Autómata, nonostante le ambizioni, è un prodotto derivativo, più simile a un esercizio formalista che a un progetto vero e proprio. Rispetto al classico film di serie B, il suo ritmo narrativo è rallentato da speculazioni affrontate meglio altrove e non offre abbastanza azione per tenere desta l’attenzione né dello spettatore relativamente nuovo al genere né di quello più smaliziato.

Un peccato perché Ibáñez si dimostra in più di un’occasione un regista attento alla composizione dell’immagine e, soprattutto, dell’inquadratura pur mancandogli, per esempio, l’ironia nera di Neill Blomkamp. Eppure, nonostante questo Autómata risulti in definitiva ampiamente insoddisfacente, pare prematuro liquidare Gabe Ibáñez. I pochi guizzi di vita del film, strappati a una sceneggiatura riciclata e alla recitazione sopra le righe di Banderas, sono con ogni evidenza merito suo.