Lo hanno preso, anzi no. La notizia – subito smentita – dell’arresto del writer Banksy – identificato come il trentacinquenne di Liverpool Paul Horner (ma non era di Bristol?) ha comunque fatto in tempo a propagarsi come un qualsiasi gossip nel villaggio digitale. A qualche minuto dalla pubblicazione online, più di quattromila tweet dibattevano febbrilmente l’accaduto, compresa Louise Mensch, seguitissima giovane ex-deputato tory, ora residente a New York, lanciatasi in un’appassionata difesa dell’anonimo padre di tutti i graffitari. Al diffondersi delle prime smentite, anche lei ha dovuto cinguettare delle imbarazzate scuse alla polizia, fino a un attimo prima demagogicamente accusata di non occuparsi «di problemi reali».
In effetti, a guardare più da vicino, non era difficile annusare le incongruenze dell’operazione. La notizia, apparsa prima nel sito per comunicati stampa PrLOG e ripresa, tra gli altri, dal National Report, uno di questi siti «orizzontali» dove le notizie sono «fai-da-te», e dal sito di gossip Jezebel, sollevava ragionevoli dubbi.
L’accusa, innanzitutto: vandalismo, cospirazione, ricettazione e contraffazione: sono accuse pesantine, anche per il nostro. Poi, la confusione fra Metropolitan Police e la City of London Police, ambedue indistintamente citate, quando l’arresto sarebbe avvenuto fuori città: la seconda sovrintende solo il distretto della City, quello finanziario, che corrisponde alla zona centro-orientale (denominata dal codice Ec). Un errore tipico di chi non conosce propriamente Londra e commesso talvolta dai media italiani, che citano la City come se fosse la città vera e propria. Infine, alcune parti del comunicato erano state riprese da un precedente tentativo di bufala, risalente a febbraio dell’anno scorso.
Un artista che fa dell’anonimato la propria identità poiché il suo linguaggio è in perenne bilico fra arte e vandalismo, ha sempre la testa sotto la spada di Damocle dell’arresto. Nessuno si sarebbe mai sognato di arrestare Salinger o Pynchon per la loro riservatezza parossistica: era motivata da ragioni mitopoietiche. Non che il mito di Banksy non tragga beneficio dalla reverenziale ignoranza in cui la legione dei suoi ammiratori langue di buon grado. Eppure per lui il nascondersi in parte esula dai dettami della società dello spettacolo: legalmente, è davvero perseguibile.
Banksy resta elusivo come sempre. Ma al di là del gusto atavico dello scherzo, l’operazione serve a ricordare l’altra faccia dell’effetto «democratizzante» della rete: la sua capacità di veicolare alla velocità della luce informazione (che non è conoscenza) e molto spesso una generosa quantità di… bullshit.